Si chiama Jane Doe, la donna statunitense che lunedì scorso ha intentato una causa contro la città di San Francisco per quella che ha definito la sua «rivittimizzazione». Jane Doe infatti ha citato in giudizio le autorità della città californiana in seguito alla sua identificazione come sospettata di furto che ha portato al suo arresto nel dicembre 2021 come autrice di un effrazione con scasso, anche se le accuse sono state successivamente ritirate.

Secondo la donna a farla finire in carcere sono state delle prove desunte dal cosiddetto kit per lo stupro. Questa metodologia consiste nel raccogliere elementi probatori, soprattutto Dna, che vengono utilizzati negli Stati Uniti per raccogliere e archiviare prove a seguito di aggressioni sessuali. Sei anni fa Jane Doe aveva presentato una denuncia sostenendo di essere rimasta vittima di una violenza.

La denuncia mette in evidenza che la donna non ha mai acconsentito alla conservazione del suo Dna e al suo utilizzo per scopi non attinenti alla cattura del suo aggressore. Una volontà che evidentemente non sembra essere stata rispettata.

«Durante questo periodo - recita ancora la citazione depositata - il laboratorio dell'anti crimine ha regolarmente eseguito rilievi sulla scena del crimine attraverso questo database che includeva il Dna della querelante senza mai tentare di ottenere il suo consenso o il consenso di qualcun altro. Il suo materiale genetico è stato probabilmente usato in migliaia di indagini penali, anche se la polizia non aveva assolutamente motivo di credere che fosse coinvolta in nessuno dei casi».

Il caso però fa seguito alle sorprendenti rivelazioni del procuratore distrettuale di San Francisco Chesa Boudin che nel febbraio scorso aveva fatto luce sulle pratiche del dipartimento di polizia della città. L'indagine aveva appunto scoperto come il Dna raccolto nei kit per stupri fosse stato mantenuto nei laboratori per cercare sospetti in crimini non correlati. Parlando alla stampa, in particolare il Washington Post, Boudin si era detto inorridito da questa pratica promettendo che il suo ufficio non avrebbe utilizzato le prove raccolte dalle vittime di aggressioni sessuali. All'epoca, definì l'operato della polizia una violazione abbastanza chiara della Costituzione dello stato.

Ma la causa sta diventando ora una vera e propria battaglia sui diritti civili degli accusati, diverse associazioni stanno chiedendo una riforma per impedire ad altri dipartimenti di polizia di fare ricorso alle evidenze presunte contenute nei kit di stupro.

Adante Pointer, il legale della donna protagonista della vicenda, ha affermato che «tale pratica che porta le vittime di violenza sessuale ad essere incriminate in casi non correlati non è solo eticamente e legalmente sbagliata, ma distrugge il tessuto stesso di fiducia nelle istituzioni che dovrebbero proteggere tali soggetti. Che tipo di fiducia dovrebbe avere questa vittima in una città e in un dipartimento di polizia che conserveranno illegalmente il loro Dna e lo useranno senza il loro consenso?».

Intanto il capo del dipartimento di polizia di San Francisco, William Scott, ha dichiarato che le politiche di raccolta del Dna erano state legalmente controllate e in linea con gli standard forensi statali e federali. Anche se non ha potuto nascondere che all'interno del dipartimento un'indagine aveva confermato la tecnica illegale di raccolta prove definita un errore orrendo durante una riunione della commissione di polizia a marzo. In quell'occasione erano venuti alla luce infatti 17 altri casi nei quali era stato usato lo stesso metodo da cui è scaturita poi la denuncia di Jane Done, sebbene nessuno di questi abbia portato all'arresto della vittima.

Da allora e stata varata una legge che dovrebbe vietare l'uso del Dna delle vittime di stupro in altre indagini penali. Il condizionale è d'obbligo perché non è chiaro in quanti altri dipartimenti di polizia della California si faccia ricorso a questa metodologia d'indagine. Inoltre e noto ormai da anni che a livello federale esiste un arretrato nell'elaborazione dei kit di stupro che avrebbe impedito di ottenere giustizia a centinaia di migliaia di vittime. Un ingolfamento che favorisce l'illegalità per portare a termine positivamente la risoluzione dei casi.