La campagna elettorale si appresta a vivere la sua parte decisiva prima del voto fissato per il prossimo 25 settembre. Oscurati i sondaggi, i partiti provano a compiere il massimo sforzo e a centrare i temi fondamentali per recuperare più consenso possibile. Sul Mezzogiorno si stanno concentrando, da ultimo, le attenzioni generali, ma soprattutto di Pd e Movimento 5 Stelle, dopo gli ultimi sorprendenti sondaggi che hanno attribuito percentuali insospettabili al partito di Conte. E proprio sul Sud Letta ha fatto uno degli ultimi investimenti politici lanciando la Carta di Taranto, con sette linee programmatiche di intervento per lo sviluppo del Meridione.

Il politologo Piero Ignazi, ordinario al dipartimento di Scienze politiche e sociali all’università di Bologna, fa il punto della situazione a meno di due settimane dal voto.

Professore che valutazione fa della campagna elettorale che abbiamo vissuto fin qui? È stata in qualche modo influenzata dal periodo particolare che stiamo vivendo?

Mi è sembrata una campagna elettorale un po’ fiacca. Non ci sono stati temi forti, né confronti particolari. Non c’è stato qualcosa di grande che abbia fatto muovere molto le corde. Ci ha provato in qualche modo Enrico Letta tentando di radicalizzare lo scontro tra rosso e nero, ma forse l’idea avrebbe dovuto essere un pochino meglio sviluppata e più insistita, o comunque ci sarebbe voluto qualche elemento in più per renderla efficace. Dall’altra parte Fdi ha adottato una strategia di inabissamento, la strategia del sommergibile per evitare forse di fare gaffe eccessive e quindi ne è conseguita una campagna fiacca. Il periodo in cui si sta svolgendo non credo che in nessun modo l’abbia potuta influenzare.

Enrico Letta vede come una nuova possibilità il consenso in crescita dei grillini al Sud. Secondo il segretario molti collegi diventerebbero così contendibili in quanto Conte andrebbe a svuotare i serbatoi di voto del centrodestra e non dei dem. Che ne pensa?

Si tratta di un suo commento e non ho elementi per smentirlo. Certo bisognerebbe capire, però, a quali dati di consenso si fa riferimento. Se facciamo riferimento agli elettori del 2018, da qualche parte quell’oltre 30 per cento dei voti dati ai grillini si deve essere mosso. Si è spostato verso destra o verso l’astensione? Tutte le percentuali che sono state diffuse con i sondaggi non tengono conto del 40 per cento degli italiani che non si esprime o non ha ancora deciso. Pertanto molti ragionamenti appaiono fatti sull’acqua.

In generale, però, la politica delle alleanze non sembra avere funzionato per il centrosinistra…

Certo che se ci fosse stato un fronte compatto di tutti quelli che si oppongono alla destra, ci sarebbe stata una competizione molto forte con un’alta percentuale per il centrosinistra di potere vincere. Dopo la rottura di Conte, però, era molto difficile ritrovare una sintonia tra Pd e M5s, mentre il “cavallo pazzo” Calenda è un po’ difficile da gestire. Per tutti questi motivi era molto problematico, nell’arco di così poco tempo, costruire una coalizione. Ci sarebbero volute grandi capacità e grande volontà che, evidentemente, sono mancate.

Quanto può spostare gli equilibri il terzo polo di Calenda e Renzi? Crede che possa favorire il centrodestra?

L’aggregazione soffierà un po’ di voti al centrosinistra e solo qualcuno al centrodestra che finirà con l’essere favorito.

Guardando a destra, invece, l’unione è così solida come sembra?

Elettoralmente la coalizione è fortissima, politicamente un po’ meno. Ci sono alcune linee di frattura evidenti tra le forze politiche che la compongono. Cosa si farà dell’autonomia differenziata che vogliono le regioni del Nord? Fdi darà il suo avallo? Salvini sarà contento di fare il junior partner di Giorgia Meloni? La politica estera diventerà più morbida nei confronti della Russia oppure no? Sull’Europa la piccola componente berlusconiana non avrà la forza di contrastare l’antieuropeismo che è un elemento identitario di Fd e Lega. Ci saranno una serie di problemi da affrontare.

In caso di vittoria del centrodestra lei crede alla possibilità di Meloni premier?

Credo proprio di sì se dovesse essere il suo partito a prendere più voti. Non vedo perché non dovrebbe accadere, né mi pare immaginabile alcun passo indietro.

Condivide l’allarme sul possibile astensionismo? Potrebbe influenzare il risultato finale?

In realtà si tratta di una tendenza in atto da tantissimo tempo. In Italia il tasso di partecipazione è rimasto più elevato rispetto a quello che si registra in altri Paesi europei. Credo sia fisiologico aspettarsi che la partecipazione cali ancora, ma per spostarsi in un’altra dimensione di valutazione dovremmo trovarci davanti ad un crollo.

Più di qualcuno pensa che, o da subito o dopo qualche mese di un eventuale governo debole, potrebbe nascere un nuovo esecutivo di salute pubblica…

Occorre vedere i numeri che verranno fuori dalle urne. È molto difficile fare una previsione di questo genere adesso.

Il draghismo insomma potrebbe riemergere o lo considera una parentesi chiusa?

Credo che il draghismo vada considerata un’esperienza conclusa e sepolta. Il che presenta aspetti sia positivi che negativi. I governi che chiamiamo di salute pubblica, basati su grandi alleanze, sono anomali nella democrazia e poi non è che questi tipi di governo siano poi così efficienti. A mente fredda non sono state rose e fiori neanche per il governo Draghi che, però, ha avuto di positivo proprio la guida da parte di una personalità rilevante che ha aiutato nei rapporti con il mondo economico e con le istituzioni internazionali. Circostanza che non ci sarà più con un governo che potrebbe essere privo di esperienza e statura internazionale.

Un governo che dovrà guidare una fase particolarmente complessa. Quali i principali nodi da affrontare? Crede che possa allargarsi ancora il solco tra fasce abbienti e meno abbienti della popolazione?

Come è noto, saranno i problemi economici quelli più complessi da affrontare nella prossima gestione, a partire dal caro energia e tutto ciò che ne discende. La spaccatura sociale tra ricchi e poveri è forse il problema più grave che non è venuto molto in luce durante la campagna elettorale. Le fasce più deboli sono le più insoddisfatte, sono preoccupate per il loro futuro e alimentano il bacino dell’astensione, perché pensano di non avere dei rappresentanti. In questo senso soprattutto l’astensione può essere considerato un vero e proprio problema democratico in quanto finisce con il non dare rappresentanza ai più poveri e ai più periferici.