Benedetta campagna elettorale - si fa molto per dire naturalmente - vicina ormai alla conclusione. Ma cominciata ben prima della sua recente apertura ufficiale, essendo stata tutta la diciottesima legislatura una campagna elettorale continua, a vari livelli, sviluppatasi per uscire progressivamente dalle maglie della vittoria a sorpresa, per quanto relativa, conseguita nel 2018 dai grillini. I quali si sono fortunatamente prestati via via a sperimentare ogni tipo di maggioranza pur di rimanere al potere. E perdendo quindi per strada la loro identità, se mai in verità ne hanno avuta una che non fosse di semplice populismo, come si suol dire a carico anche di altri, e non a torto. «Avvocato del popolo» - ricordate? - si definì orgogliosamente Giuseppe Conte arrivando a Palazzo Chigi con i suoi vice presidenti del Consiglio Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

Persino Il Foglio - e per mano del suo direttore Claudio Cerasa, non ancora rassegnato forse, come il più realistico fondatore Giuliano Ferrara, a scommettere sulla capacità degli avversari del centrodestra ormai condotto da Giorgia Meloni di fare dopo le elezioni una sana e rigenerante opposizione - si è poco elegantemente aggrappato ad un evento come la scomparsa della regina Elisabetta II per spargere nubi sulla fase dichiaratamente conservatrice che si sta davvero avvicinando in Italia. E non solo nelle chiacchiere di chi vede da tempo conservatori dappertutto, anche a sinistra: per esempio, nel Pd di Enrico Letta.

Ripeto: Enrico, non lo zio forzista Gianni, col quale è capitato anche a me di recente di scambiarlo scrivendo dell’uno e pensando familiarmente all’altro.

Sentite l’incipit dell’editoriale di ieri di Cerasa: «Parlare di mondo anglosassone, oggi, senza parlare della regina Elisabetta può apparire fuori contesto, lontano dalla realtà, ma c’è una ragione ulteriore che, in queste ore, avvicina emotivamente il mondo anglosassone all’universo italiano. E quella ragione ha a che fare con un futuro che giorno dopo giorno somiglia sempre di più al volto di Giorgia Meloni, la prossima, possibile regina della politica italiana».

Già confessa di tremore dei polsi a immaginarsi a Palazzo Chigi, come va dicendo nei comizi e nelle interviste, Meloni sarà sbiancata nel sentirsi indicare persino come «regina della politica italiana». Che avrebbe tuttavia il torto, secondo quanto si capisce dal ragionamento di Cerasa, di sentire ormai superata l’ «impresentabilità», rimproveratale dagli avversari, scambiando il «mondo anglosassone» per la sola parte britannica. Dove una regina è appena morta dopo 70 anni sul trono cominciati e finiti con un conservatore allo storico numero 10 di Dowing Street: nel 1952 con Winston Churchill e ora con Liz Truss, appena nominata al posto del collega di partito Boris Johnson dalla stessa regina con quella mano destra livida delle sue ultime cure.

Giorgia Meloni- conservatrice anche lei, alla testa addirittura di una omonima formazione europea - è stata quindi invitata da Cerasa a non pensare che possano bastarle le credenziali, diciamo così, britanniche. E meno male che il direttore del Foglio non ha evocato le simpatie per i nazisti attribuite a suo tempo allo zio allora regnante di Elisabetta, Edoardo VIII, poi dimessosi per amore della divorziata americana Wallis Simpson.

A Giorgia Meloni mancherebbero ancora le credenziali del mondo anglosassone d’oltre Atlantico. Dove le chiavi della presentabilità dell’ex ragazza della Garbatella però sarebbero nelle mani non più dei conservatori repubblicani ormai sputtanati - diciamo così- da Donald Trump, ma in quelle dei democratici, rappresentati alla Casa Bianca dal presidente Joe Biden. Con i quali tuttavia - ha riconosciuto Cerasa - la leader della destra italiana sarebbe già riuscita a realizzare una «sorprendente simmetria» sul terreno dell’ «atlantismo, odio per il puntinismo, distanza dalla Cina, vicinanza a Taiwan».

Sino a quando questo processo di simmetria, diciamo così, non sarà completato, nonostante la presentabilità acquisita - ripeto - nella Gran Bretagna della scomparsa Elisabetta e forse anche del subentrato Carlo III, il partito della Meloni continuerà ad essere «per i tedeschi un cugino alla lontana dell’Afi, per i francesi un cugino alla lontana della Le Pen, per gli spagnoli un cugino non alla lontana di Vox». Tutto questo, magari, sarà pure vero. Ma dobbiamo dirci francamente che conta, o dovrebbe contare alla fine soprattutto ciò che della Meloni, del suo partito e della sua «presentabilità» pensiamo noi italiani.

E su questo terreno neppure al Foglio si riesce bene a capire che cosa ne pensino davvero. In particolare, se condividono o no l’allarme per la democrazia derivante da un’affermazione della Meloni lanciato da Enrico Letta, che non per questo ha perduto il voto pubblicamente annunciato e ribadito più volte da Giuliano Ferrara in persona.