Da settembre l’estate pare già lontana, ma le apparenze contano poco: ci siamo ancora dentro. E non c’è stagione migliore per avvertire certe precedenze sociali, per intuire alcuni paradigmi culturali, per indovinare quelle distanze fra stili di vita ineffabili magari fino a giugno, inequivocabili fra luglio e agosto.

Questo purché ci si lasci guidare da una rivisitazione feriale del proverbio manzoniano: dimmi con chi tratti e ti dirò chi sei. Ecco, dimmi dove vai in vacanza e ti dirò chi sei vale certo da meno anni, ma altrettanto bene. E funziona anche al contrario. Allora se il fricchettone lo associamo, tenda in spalla, a delle impervie vacanze in bicicletta su qualche ciclabile della Corsica del sud o al massimo della Sardegna del nord, il coatto destrorso stabile avrà il suo ombrellone e lettino fra i dj- set insabbiati di Milano Marittima. E se il radical chic girerà e rigirerà il mappamondo fino a volare verso esclusive isole asiatiche, spazio di immersioni tanto acquatiche quanto nei maggiori mali contemporanei, il povero di qualsivoglia ideologia si troverà ospite di amici e parenti, Ryanair permettendo, o imparerà ad apprezzare la pace dei mesi più caldi trascorsi in città. E per lo snob cosa rimane?

Ma lo snob chi, poi? Per orientarsi fra generalizzazioni che rischiano di essere grossolane bisogna avere una guida ai tanti livelli di distinzione che, di apparenza in apparenza, costituiscono la scala per comprendere quella selva di sottigliezze e sfumature che va su, su fino alle vette della raffinatezza più sublime.

Ci ha pensato Gaetano Cappelli, che ha appena dato alle stampe un libretto agile e puntuto: “Lo snob nella società dello snobismo di massa”. Già dal titolo siamo in un paradosso. Come tenere insieme la regola aurea degli snob d’ogni epoca e luogo - squadrare il resto dell’umanità dall’alto in basso - con quell’accozzaglia che nasce deludente e cresce sorda a ogni fremito elitario, la massa? Cappelli conia una definizione a questo scopo, lo snob pop.

Eccone la descrizione: «Lo snob pop sembrerebbe un ossimoro e invece altro non è che la variante warholiana dello snobismo. Convinto, sull’esempio del suo ispiratore, che distacco e ironia lo distinguano comunque dalla gente ordinaria, lo snob pop può dunque immergersi allegramente in tutto ciò che il contemporaneo gli offre. Così, tanto per cambiare, guarda dall’alto in basso, considerandoli delle vecchie mummie, gli snob che si fanno vanto di nemmeno possedere un televisore, e si appassiona alle serie di cui, dalle dispute di produzione alle carriere degli attori, conosce ogni dettaglio; ma anche ai programmi di gran seguito sui canali generalisti; in particolare quelli più morbosi, tipo Storie maledette della già imbalsamabile Lady Leosini, e può spingersi fino a Chi l’ha visto?, o perfino ai reality trovandovi il massimo diletto. Arriva primo su ogni tendenza e subito la rifugge. Detesta quindi il mainstream, a iniziare dallo stesso termine “mainstream”. Attento com’è all’obsolescenza delle parole, è infatti pronto a eliminarle in base all’abuso e quindi via: “resilienza”, “fragilità”, “percorso”, “sinergia”, “condivisione”, “alternativo”, “vip”, “narrazione”, “in/ out” (anche per ordinare un Martini, che è tra i due o tre cocktail ammessi). Col rischio, tutt’altro che remoto, di rimanerne senza, parole dico, come il suo diretto ispiratore, Warhol dico, che pochissime ne pronunciava; pare più che altro perché poco avesse da dire, beccandosi per questo l’epiteto magnifico di “Sfinge senza enigma” dal fin troppo ciarliero Capote, soprannominato a sua volta, come racconta Michele Masneri, “Trummy” ( tromba) da Arbasino; anche se ben più irresistibile fu il nomignolo che “per via di certi abiti, molto simili a dei manti religiosi”, il sommo iriense affibbiò ad Allen Ginsberg “Padre Pio”. ( Lo snob, pop e non, è maestro nella battuta sferzante)».

Da qui allo snob come figura ricorrente e ricorrentemente rincorsa sui social il passo è agevole. Gli ingredienti ci sono tutti: nasi che s’arricciano, cinismo, esibizionismo, una spolverata di saccenza, la delicata perfezione del saper vivere, note di gran gusto, una qualche ricercata ubbia, battute salaci, scampoli di non so che e un contegno di calma mai e poi perduta.

Anche se il libretto di Cappelli non delude quanto a elenco divertito e divertente sulle mode e i costumi degli snob d’ogni tempo, al suo cuore c’è un tratto dello spirito del nostro, di tempo, quello che viviamo. Con le parole di Elena Croce, citate dall’autore: «Lo snob stronca con elegante cinismo qualsiasi affermazione di valore e di fede, giacché oggi convinzione comporta un calore di per sé imperdonabile».

E allora se il titolo può trarre in inganno il lettore e fargli pensare che il peggiore fra i vizi sociali sia un aspetto di quella massa che non siamo mai noi, ecco che quella mancanza di convinzione colpisce a dovere anche chi se ne credeva esente. A fare lo snob non è la classe d’appartenenza quanto l’atteggiamento e nell’epoca in cui, contraddicendo il nostro esordio, tutto quel che conta è l’apparenza sarà difficile snobbare l’idea che tanta parte della partecipazione sociale trova più facile criticare, bacchettino alla mano, sempre tutto e tutti, che tentare la strada del comprendere qualcosa del mondo con una disposizione intelligente e sentimentale.

E se proprio snob non si può non essere, almeno in qualche occasione e in alcuni nostri giudizi, almeno si potrà temperare il carattere con questa lettura. Che ha due pregi notevoli. La si può compiere all’ombra di qualsiasi orizzonte, il più ricercato e patinato o al contrario il più volgarmente ordinario. E spinge, con garbo ma irresistibilmente, il lettore a tenere fede alla parte migliore che la parola “snob” contiene e suggerisce da secoli: la tensione verso un ideale.