La fine della legislatura ci ha portato un nuovo tipo di processo amministrativo. Evidentemente ci si teneva: pur di introdurlo, la norma di decreto legge che lo prevedeva è stata inserita in un precedente decreto legge come emendamento in sede di conversione. Risparmio i dettagli: con un piccolo gioco di prestigio da ferie d’agosto, è ora definitamente vigente l’art. 12 bis d. l. 68/ 22.

È da starci attenti, non lo si trova nel codice del processo amministrativo. Il nuovo rito si applica quando “il ricorso ha ad oggetto qualsiasi procedura amministrativa che riguardi interventi finanziati in tutto o in parte con le risorse previste dal PNRR”. E, scritto così, già è un problema. Se l’unico criterio è che ci sia un finanziamento - anche minimo - con risorse PNRR, allora finiscono nel nuovo rito non poche controversie, e della più varia natura: anche cose che neanche puoi immaginarti ( e che scoprirai quando sei già in causa). Il che complica la vita a chi deve far ricorso.

Ma, nella logica della norma, non è questo che importa. Quel che si vuole ottenere con il nuovo rito è la velocità; e, soprattutto, una strada senza semafori.

Dunque si dispone che il giudice - per poter dare una misura cautelare - non deve accontentarsi del “fumus” del ricorso e del pregiudizio fatto valere; e non basta neppure che consideri il “preminente” interesse pubblico alla realizzazione dell’opera ( come già gli impone il codice del processo amministrativo). Deve anche motivare espressamente sulla compatibilità della misura cautelare con il rispetto dei termini previsti dal PNRR.

Se poi la misura cautelare viene concessa, comunque scompare da sé in tempi rapidi. La causa dovrà infatti essere chiamata in discussione alla prima udienza dopo trenta giorni dal provvedimento cautelare; se no, automaticamente, il provvedimento cautelare perde efficacia. Un tipo di tutela cautelare – a scadenza prefissata per legge - che non si era mai visto.

Chi fa ricorso, poi, non ha contro solo chi ha emesso gli atti impugnati ( o chi ne beneficia): sono – per legge - parti necessarie del giudizio anche le “amministrazioni centrali titolari degli interventi previsti nel PNRR”. Ciò crea complicazioni e incertezze, ma soprattutto altera la struttura stessa del giudizio amministrativo: che ruolo vi svolgono i nuovi convitati?

Forse bastano questi cenni a dare l’idea ( ma rinvio all’amico Francesco Volpe per una ben più analitica demolizione della nuova normativa).

Insomma, c’è un nuovo arrivato tra i diversi riti già esistenti nella giustizia amministrativa. Ma c’è poco da festeggiare: va bene il PNRR, ma la nuova disciplina processuale non è certo ispirata alla tutela di chi si rivolge al giudice. Al contrario. E c’è da preoccuparsi che non sia questo il modello per altri ambiti del contenzioso.

La formazione di un nuovo codice dei contratti pubblici Il nuovo “rito PNRR” è dunque già legge, con tutte le sue discutibili peculiarità. Ma si inserisce in un contesto in via di formazione; un contesto che accompagna la fine di questa legislatura, e che accompagnerà l’inizio della prossima ( chiunque vinca).

Ne è elemento centrale il nuovo codice dei contratti pubblici, anch’esso correlato agli obiettivi imposti dal PNRR. In sintesi: una legge del giugno scorso - la n. 78/ 2022 - ha delegato il Governo ad adottare entro sei mesi uno o più decreti con la nuova disciplina dei contratti pubblici. Ha previsto inoltre che – in sostanza - il nuovo codice lo scriva il Consiglio di Stato; e che, per scriverlo, si avvalga di una Commissione “mista” ( composta cioè di magistrati amministrativi, di esperti esterni, di rappresentanti del Foro e dell'Avvocatura dello Stato). Ecco, ora siamo qui. Fare un nuovo codice è complicato, ma intanto la Commissione è stata costituita; tutti sono stati invitati a inviare contributi per il nuovo testo; e - a quanto pare - si sta procedendo ( la tempistica di partenza non contemplava crisi politiche ed elezioni anticipate).

È certo positivo che, pur nei rapidi tempi imposti, vi sia la partecipazione alla stesura del nuovo codice di chi può fornire qualche utile indicazione tecnica; a patto che sia una partecipazione effettiva a un lavoro che – è appena il caso di ricordarlo – non è affatto “redazionale”, ma incide su un settore cruciale. E le rappresentanze dell’avvocatura specialistica coinvolte devono, prima di tutto, presidiare che non venga limitata o vanificata la tutela delle situazioni soggettive.

Al nuovo codice si collegano innumerevoli temi.

Per dirne uno: tra i principi e criteri direttivi della delega, la legge pone la revisione delle competenze dell'Anac in materia di contratti pubblici, “al fine di rafforzarne le funzioni di vigilanza sul settore e di supporto alle stazioni appaltanti”. Mettere ordine nelle competenze dell’Anac – molteplici, mai ben coordinate tra loro, però fondamentali - è questione delicata. Ma è un’occasione che non va persa ( peraltro, tra i molti componenti della Commissione “mista”, mancano esponenti dell’Anac: il che pare un po’ incongruo, se c’è da rivederne il ruolo).

E poi, tra le cose da riconsiderare, vi è certamente il Collegio consultivo tecnico. Dovrebbe essere soprattutto uno strumento di “accompagnamento” dei lavori pubblici più consistenti per rimuoverne gli intoppi di percorso. Un’idea interessante, sulla carta; e che sulla carta è rimasta. Il CCT è già previsto per legge, ma deve ancora trovare una propria identità, diversa da quella dei vecchi ( e incostituzionali) arbitrati obbligatori. Il che richiede di risolvere – oltre a una serie di difficoltà di coordinamento - la questione di fondo della sua indipendenza strutturale rispetto alle posizioni in gioco.

Sullo sfondo il tema, di enorme attualità, del modo in cui tener conto degli incrementi dei prezzi.

La rassegna potrebbe continuare, ma il senso – in fondo – è tutto qui: ci saranno un po’ di cose da verificare, nel passaggio di agende tra chi ha ora la responsabilità di decidere e chi l’avrà dopo la tornata elettorale.

Stefano Bigolaro 

CONSIGLIERE UNIONE NAZIONALE AVVOCATI AMMINISTRATIVISTI