A me la Costituzione repubblicana va bene come è, anzi come era prima delle modifiche che ha dovuto subire nel corso dei decenni, dalla sciagurata riforma del Titolo V fino alla potatura delle Camere. Sono inoltre convinto che le Carte Costituzionali vivano di vita propria – come tutte le norme – ed evolvano insieme alla storia di un paese. A questo proposito si potrebbero scrivere dei trattati su come le istituzioni del 1948 contenevano in sé ampi margini di interpretazione adeguata al trascorrere dei tempi e dei processi politici, senza per questo venir meno ai dispositivi delle norme. Infine, trovo stupido affidare ad una complessa procedura parlamentare quella maggiore efficienza del sistema che potrebbe essere risolto attraverso i regolamenti delle Camere. En passant, ritengo che la parte maggiormente datata non sia la seconda, ma la prima, in cui si avverte – specie nella Sezione dei Rapporti economici – il peso delle ideologie dei partiti di allora, tanto che nessuno degli attuali, riscriverebbe adesso quelle stesse norme come allora. La questione della riforma costituzionale è entrata nel dibattito elettorale e pertanto merita qualche commento, anche da parte di chi non la ritiene necessaria, se non per correggere, tutt’al più, i vulnus che la Carta ha dovuto subire.

Preliminarmente occorre mettere qualche puntino sulle ‘’ i’’. Innanzi tutto va chiarito che il centrodestra non propone il ‘’presidenzialismo’’, ma l’elezione diretta a suffragio universale del Capo dello Stato. Si tratta di modelli istituzionali radicalmente diversi, almeno sul piano teorico. In un regime presidenzialista, il presidente è eletto ed è contemporaneamente capo dello Stato e dell’ Amministrazione, in una logica accentuata di divisione dei poteri. Nel caso classico degli Usa, si accompagna con il federalismo, come diretta ispirazione dei grandi costituzionalisti del Secolo dei Lumi. Invece, l’elezione diretta del Capo dello Stato è assolutamente compatibile nel contesto di un regime parlamentare. L’elezione popolare diretta del Capo dello Stato è` presente nella grande maggioranza dei Paesi europei: Austria, Irlanda, Islanda, Portogallo, Finlandia, Francia (sia pure con la caratteristica del semi- presidenzialismo), senza contare i nuovi Stati dell’Europa centro- orientale come Polonia, Romania, Bulgaria ed altri. Laddove questo tipo di elezione non è contemplata di solito vige un regime monarchico. Ma c’è di più. Se si aprissero gli armadi di tanti partiti si troverebbero gli scheletri dell’elezione diretta del capo dello Stato, ivi rinchiusi in diverse stagioni politiche. E’ appena il caso di ricordare che nel testo di legge costituzionale presentato il 4 novembre 1997 dalla Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema – il punto più alto a cui arrivò l’intesa tra i partiti – era prevista l’elezione popolare diretta a suffragio universale – eventualmente su due turni – del Capo dello Stato. Relatore sul punto fu Cesare Salvi, il quale scrisse: "Si può dunque, affermare che l’elezione diretta del Capo dello Stato è il sistema più diffuso in Europa, e che non ha dato luogo a degenerazioni plebiscitarie o a pericoli per la tenuta democratica del sistema istituzionale. Non si comprende dunque perché solo l’Italia, e con essa il popolo italiano, dovrebbe fuoriuscire dal quadro europeo dominante; né credo si possa dire che l’elettorato italiano, in cinquant’anni di elezioni politiche e di referendum, abbia mai dato prova di comportamenti irrazionali o si sia mostrato facile preda di suggestioni demagogiche".

Non parliamo poi dell’altro punto che fa parte del compromesso raggiunto all’interno della coalizione di centrodestra: l’autonomia delle Regioni. Il dibattito sul federalismo ha attraversato intere legislature (l’unica riforma in tal senso è attribuibile all’iniziativa solitaria del centrosinistra) con tutti i maggiori partiti tentati da un’operazione che intendeva spartirsi i consensi raccolti dalle Lega nel Nord del Paese. La richiesta dell’autonomia differenziata fu sostenuta anche dall’Emilia Romagna. Trovo invece inaccettabile – nonostante le mie simpatie per il Terzo Polo – la proposta della elezione diretta del premier. E’ il recupero di una vecchia idea di Mario Segni – uno dei più grandi sopravvalutati della storia contemporanea – che si riassumeva nella seguente formula. "Scegli il sindaco d’Italia’". Una riforma siffatta manderebbe in malora almeno tre capitoli essenziali dell’attuale modello costituzionale: il Parlamento, il governo e il presidente della Repubblica. Infatti nessuno può pensare che l’operazione potrebbe limitarsi ad eleggere un "pinco pallino" che poi deve andare a cercarsi una maggioranza. Il modello del premierato, su cui si basa l’elezione del sindaco e dei presidenti delle Regioni, pone in ruolo secondario l’assemblea elettiva la cui composizione è condizionata dall’esigenza di assicurare una maggioranza all’eletto la cui vitalità è alla mercé (nel senso del classico simul stabunt, simul cadent’) del capo dell’esecutivo il quale peraltro dispone a sua discrezione della nomina dei titolari delle cariche di governo. Non esiste – che io sappia – in nessun angolo del pianeta una Repubblica delle banane che organizzi in questo modo le sue istituzioni, subordinando il potere legislativo al governo. Se questa fosse la soluzione, tanto varrebbe abolire la carica del Capo dello Stato e ripristinare una dinastia regnante.