È bene chiarire preliminarmente che quanto si afferma è certificato dai dati della relazione che prende in considerazione soltanto i procedimenti penali conclusi ( con sentenza sia definitiva che non definitiva) nello stesso anno di emissione della misura ( i cosiddetti procedimenti “cautelati”).

Il campione complessivo è costituito da 32.805 casi.

Interessa rilevare, per i fini propri di questa riflessione, che il 5,4% dei procedimenti in questione si è concluso con assoluzione non definitiva, l’ 1,5% con assoluzione definitiva e il 2% con sentenze di proscioglimento a vario titolo. La percentuale complessiva di questi ammonta all’ 8,9% ( era il 9,1% nel 2020, il 10% nel 2019 e il 10,2% nel 2018).

C’è poi un secondo insieme ed è quello costituito dai procedimenti conclusi con condanna ( definitiva e non definitiva) a pena sospesa. Nel 2021 il loro totale è stato del 14,4% ( era il 14,5% nel 2020, il 14,8% nel 2019 e il 14,1% nel 2018).

Si può dunque affermare che, relativamente all’anno 2021, nell’ 8,9% dei casi la sentenza ha escluso la fondatezza dell’accusa o ha comunque riconosciuto la presenza di una causa estintiva) e nel 14,4% dei casi le caratteristiche del fatto- reato e della personalità dell’autore hanno consentito una prognosi favorevole tale da escludere la commissione futura di nuovi reati.

È chiaro che questa seconda tipologia di esiti ha bisogno talvolta della pienezza del giudizio perché ne emergano i presupposti ma il buon senso suggerisce che il più delle volte il quadro è completo già al momento della domanda di misura cautelare. Il che è come dire che in un numero rilevante di procedimenti conclusi con condanna a pena sospesa ben si sarebbe potuto fare a meno di qualsiasi misura, tanto più tenendo conto del disposto dell’art. 275, comma 2- bis, cod. proc. pen., a norma del quale «non può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena».

Non è quindi azzardato affermare che, complessivamente ed alla luce dei fatti, in 2 casi su 10 il potere cautelare è stato esercitato in contesti che avrebbero suggerito ben maggiore prudenza valutativa di quella dimostrata.

Questi numeri sono vite sconvolte dove la maggior parte di queste persone viene arrestata in piena notte, condotta in carcere senza troppe spiegazioni, proiettata in prima pagina o sui titoli dei giornali, per poi vedersi dichiarare «ingiusta» la privazione della libertà.

La riparazione per ingiusta detenzione non basta, non può bastare. Prima che la vicenda processuale sia conclusa, dopo diversi anni, la vittima spesso ha perso il lavoro, gli amici, qualche volta perfino la famiglia, sempre la credibilità e la fiducia altrui.

Quale somma potrebbe mai risarcire un’esperienza capace di incidere così pesantemente nella mente e nel corpo, fino a causare conseguenze difficilmente eliminabili ? Chi è stato in carcere da innocente racconta di essere stato soggetto a crisi di panico, notti insonni e difficoltà relazionali anche a distanza di anni.

Una riflessione appare necessaria: di fronte a tali situazioni che colpiscono le famiglie, l’attività lavorativa, la credibilità di soggetti che entrano nel sistema carcerario o la cui libertà personale viene ingiustamente limitata, può essere ammissibile che a pagare per gli errori del magistrato, in sede di valutazione dei presupposti per l’applicazione delle misure detentive, sia sempre e soltanto lo Stato ( cioè, in ultima analisi, i cittadini stessi) ?

Se lo Stato riconosce che c’è stata un’ingiustizia, è corretto che affronti e valuti che cosa non ha funzionato: se qualcuno ha sbagliato, se l’errore è stato inevitabile, se c’è stata negligenza o superficialità, se chi ha sbagliato deve essere chiamato a una valutazione disciplinare.

I magistrati oggi non rispondono degli errori commessi. Troppo spesso, infatti, accade che le ragioni che hanno determinato errori, anche gravi, non siano rilevate, come occorrerebbe, sul piano disciplinare o restino prive di conseguenze in sede di decisione sugli avanzamenti di carriera.

Il tema sotteso a questa riflessione è la necessità di abbandonare la cultura della comoda deresponsabilizzazione a favore di un più diretto e penetrante controllo sull’operato del magistrato, che – non va dimenticato – in questa materia applica misure che incidono sui più importanti diritti costituzionali delle persone.

Nelle scorse settimane era stato presentato alla Camera un progetto di legge che pare destinato a riproporsi nella prossima legislatura e che prevede di introdurre sulla disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, tra gli illeciti disciplinari il fatto di aver concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione ai sensi degli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale.

Il tutto per sfatare l’aforisma di Borges: «Per aver paura dei magistrati non bisogna essere necessariamente colpevoli».

Riccardo Radi