«Onorevoli colleghi, questa mattina qualcuno seduto in quest’aula, per dimostrare il suo disprezzo per la mia presenza qui, ha mormorato: “Un cafone in Parlamento…”. Ebbene sappiate che questo titolo non mi offende, anzi, mi onora, infatti se io valgo qualcosa, se io sono qua, lo devo ad Ambrogio, a Nicola, a Tonino, a tutti quei braccianti analfabeti che hanno dormito insieme a me nelle cafonerie e con me hanno mangiato pane e olio, che hanno lottato duramente per i diritti dei lavoratori, di tutti i lavoratori, perché la fame, la fatica, il sudore non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto».

Insediandosi in Parlamento nel 1921 Giuseppe Di Vittorio da Cerignola, Puglia, diceva: «Io sono un cafone» – e a milioni i cafoni, i contadini del sud, gli Ambrogio, i Nicola, i Tonino lo amavano. Era uno di loro, bastava guardarlo, guardargli le mani. Guardo ora Aboubakar Soumahoro, per tutti Abou, che si candida in Parlamento e penso che siano cambiati i nomi dei cafoni – oggi sono Malik, Biko, Amir, Momoudou. Ma la schiavitù è la stessa, ma la dignità è la stessa. C’è stato un tempo al Sud in cui avere la schiena dritta significava lottare per la propria dignità, coltivare un sogno di uguaglianza e di diritti. Luoghi come Rosarno, San Ferdinando, come altre cittadine dello Jonio, da Bianco a Isola Capo Rizzuto, hanno vissuto occupazioni di terre, coraggio di sindacalisti, fucilate e persecuzioni, mobilitazioni di massa, bandiere rosse al vento portate a piedi, su ciucci e biciclette, municipi in fiamme, persino repubbliche proclamate per un giorno.

Un anno dopo la rivolta di Rosarno del 2010 li vidi con addosso i vestiti della domenica. Per un giorno non portavano gli stivaloni di gomma, i cappellacci sformati, le mantelline impermeabili e le tute e i maglioni tarmati con cui li incroci sempre sulle strade mentre vanno verso i campi a raccogliere arance o sbucano da qualche interpoderale, o stanno assembrati sulla provinciale aspettando che un caporale li scelga per lavorare. Per un giorno avevano messo le adidas ai piedi, i pantaloni levi’s, i maglioni baciabbracci, i giubbotti dolcegabbana. Tutto rigorosamente griffato. Tutto rigorosamente falso. Tutta roba che si prende dai fratelli e dai cugini che la vendono per strada. Era un giorno importante quello, e le persone per bene sanno che ai giorni importanti bisogna presentarsi vestiti ammodo. È un segno di rispetto. E qui, di questo stiamo parlando: di rispetto.

Antichi sono i loro gesti del lavoro. Le arance si raccolgono come cent’anni fa, nell’umido che intirizzisce le braccia e si smangia le ossa. Antiche le braccia da lavoro. Antico il modo in cui sfilavano per il paese con i loro cartelli. Antica la maniera in cui si incolonnavano ordinati per salire sui pullman - organizzati dai sindacati, dalle associazioni - che li avrebbero portati alla manifestazione di Reggio Calabria, in città.

Quando li incontri per strada nei giorni del lavoro e li vedi camminare a piedi per andare nei campi o in bicicletta tornarsene da qualche parte e portarsi le buste della spesa attaccate al braccio o poggiate sulla testa, ti dici che un tempo le cose dovevano essere così, quando a faticare si andava a piedi o in bicicletta. Antiche sono le braccia del lavoro. È il lavoro che è antico. È la cosa più antica che c’è. È l’organizzazione della lotta che è moderna, che cambia sempre. Che chiede sempre la stessa cosa: rispetto. Perché è una cosa importante essere lavoratori. Dovrebbe esserlo.

Ci vuole niente perché un incendio divampi in una distesa di ripari di fortuna quando metti su un telo di plastica con due assi di legno e poi dei cartoni tutto intorno a ripararti dal freddo – succede in tutti gli slums del mondo, a Dacca a Niamey a Manila. A San Ferdinando, Italia. Successe così a gennaio 2018, quando tra le fiamme morì Becky Moses che al campo era arrivata pochi giorni prima da Riace, perché le avevano negato il visto di asilo politico. È per quello che ti industri che magari se ci metti due lamiere quella baracca non prende fuoco e tu finisci arrostito dentro.

Era il lavoretto extra di Soumaila Sacko, cioè quando non lo chiamavano a rompersi il culo in campagna per quattro soldi. Ognuno fa gli extra che può nella baraccopoli di San Ferdinando – c’è chi vende qualche bibita, c’è chi prepara panini o uno stufato. Tutta una economia, è la legge del mercato, no? Così, s’era partito a piedi, Soumaila con due suoi amici, Drame Madiheri e Madoufoune Fofana, a cercare lamiere. Nello scattio del caldo – le quattro del pomeriggio del giugno 2018. Loro intanto si portavano avanti, a vedere, scegliere, accantonare, e poi magari passava il furgone di un amico e caricavano. È una fabbrica abbandonata, l’ex Fornace. E pure sequestrata, perché ci avevano stoccato rifiuti che venivano dalla Centrale di Brindisi o da chissà dove. In attesa di bonifica. Ai proprietari non interessava neppure più. Che la smontassero tutta, pure i muri, per quel che gli importa.

Alle cinque e mezza, sei del pomeriggio si sente il primo colpo di fucile – Soumaila e Drame sono sul tetto e Madoufoune sta di sotto, hanno già messo da parte tre lamiere, un buon lavoro. Non fanno in tempo a capire – che i colpi sono arrivati alle gambe e ai piedi – e a scendere di corsa che arriva il secondo sparo. Soumaila è colpito alla testa. Il corteo era piccolo – sarà un centinaio di persone. Era venuto fuori dalla baraccopoli. Dall’inferno. E loro sembravano diavoli. Cappellucci di lana, pantaloni di tuta, magliette di calcio, alcuni in canotta e scalzi. Diavoli rimpannucciati dalla Caritas. Poi, ne arrivavano altri, a piedi o in bici.

Il cielo si era fatto improvvisamente velato, una cammarìa di scirocco dopo giorni di sole pieno. Si sarà stufato anche il cielo, qui, di sovrintendere le cose del mondo. Libertà libertà – gridavano gli africani. E poi – tocca uno, toccano tutti. E ancora: Soumaila, uno di noi. Ecco, se volete capire cosa sia il capitalismo 4.0 e le magnifiche sorti e progressive dell’automazione – venite qui, a San Ferdinando, a Rosarno, dove regna la schiavitù. Dove regna l’apartheid. Venite qui, è l’Alabama prima di Martin Luther King, è Johannesburg prima di Nelson Mandela, e forse riusciremo insieme a capire cosa significhi «non abbiamo da perdere che le nostre catene». Un bracciante nero sventolava una foto di Soumaila. Io non ho paura, urlava verso le auto – ferme ora che loro si erano sdraiati per terra a un incrocio. Io non ho paura. Qui è un programma minimo di riforme.

Vogliamo giustizia, gridava Abou nel megafono, nella piazzetta di San Ferdinando, intanto che si aspettava che una delegazione incontrasse il sindaco e il vicequestore. Non vogliamo ancora tendopoli. C’erano le telecamere – arrivano sempre i giornalisti, in Calabria, quando succede un fattaccio. Abou è un sindacalista di base, e qui lo rispettano tutti. Parla di lavoro e dignità, di italiani e migranti, di chi aizza la guerra tra poveri, di fratellanza. Intorno, c’erano i giovani delle associazioni che da anni si battono per condizioni migliori. Soumaila è stato assassinato, diceva Abou, e vogliamo giustizia. Non era un ladro, era in prima fila nelle lotte – gridava Abou.

Questo è Abou – un lavoratore della terra che chiede rispetto e dignità per il suo popolo di lavoratori. Spero che possa entrare in Parlamento e dire: Io sono un cafone. Perché la fame, la fatica, il sudore non hanno colore e il padrone è uguale dappertutto.