Anche se non lo ha detto, o non ancora in modo esplicito, limitandosi a lamentare “la scelta riformista” abbandonata o tradita da Enrico Letta per accordarsi anche con i rossoverdi nella partita elettorale contro il centrodestra, deve avere contribuito alla rottura, “strappo” e quant’altro di Carlo Calenda la blindatura della Costituzione uscita proprio dall’intesa fra il segretario del Pd, i rossi di Nicola Fratoianni e i verdi di Angelo Bonelli. Una Costituzione - hanno avvertito costoro- minacciata dal progetto del presidenzialismo riproposto da Giorgia Meloni ormai lanciata verso Palazzo Chigi. Alla quale Silvio Berlusconi, una volta tanto deludendo forse quel Matteo Salvini cui aveva concesso troppo secondo i “traditori” appena usciti da Forza Italia, ha riconosciuto - in una intervista alla di avere un “coraggio” pari al suo.

Il presidenzialismo, del resto, è sempre stato nelle corde di Berlusconi, come lo fu in quelle dell’amico Bettino Craxi. Che si procurò per questo negli anni Settanta su Repubblica le vignette in posa mussoliniana di un Giorgio Forattini pur non generoso con i comunisti. Ai quali il leader socialista era tanto indigesto da meritarsi nei menù alle feste dell’Unità l’intestazione della trippa.

All’improvviso, con questa storia del presidenzialismo in salsa meloniana, che un centrodestra vittorioso nelle urne del 25 settembre potrebbe introdurre con una maggioranza tanto larga da non correre neppure il rischio di un referendum confermativo, la Costituzione è tornata ad essere a sinistra la più bella del mondo, come ai tempi di Pier Luigi Bersani e della scuola del Pd affidata all’alta autorità, diciamo così, del presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Che era tornato alla politica militante, dopo i sette anni trascorsi al Quirinale, per condurre e vincere il referendum costituzionale targato Berlusconi e Bossi.

La Costituzione, dicevo, è tornata ad essere la più bella del mondo, quindi intoccabile, anche nel titolo quinto - sui rapporti fra Stato e regionimodificato a stretta maggioranza in tempi d’Ulivo per inseguire inutilmente i leghisti e alla fine riconosciuto dalla stessa sinistra come un maledetto incidente. Al quale non fu possibile rimediare neppure con la riforma costituzionale voluta dall’allora segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio Matteo Renzi nel 2016: bocciata, come si ricorderà, a prescindere dal suo contenuto, giusto per colpire e poi affondare la nave renziana. Dalla quale era sceso anche Silvio Berlusconi per la corsa al Quirinale del 2015, fatta vincere a Sergio Mattarella da Renzi, sempre nella doppia veste di capo del suo partito e del governo.

Proprio a proposito di quell’infortunio del titolo quinto, riconosciuto ben prima che l’emergenza pandemica ne rendesse ancora più evidenti i danni, Massimo D’Alema si distinse nell’opposizione alla riforma costituzionale di Renzi dicendo che “in pochi mesi” se ne sarebbe potuta approvare un’altra. Sono passati sei anni e siamo ad un’altra campagna di intangibilità costituzionale per nuovi, sopraggiunti pericoli di una destra ritenuta sostanzialmente eversiva. Che vorrebbe introdurre sistemi istituzionali ai quali l’Italia non sarebbe adatta, matura e quant’altro.

E’ appena intervenuto l’emerito professore e presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky per spiegarci in una intervista alla Repubblica di carta come e perché non ci meritiamo un presidente della Repubblica eletto direttamente dagli “italiani”, peraltro indicati nella riforma Meloni come sostantivo e non aggettivo, senza la qualifica di «cittadini, come sta scritto nella Costituzione del 1948». «E’ una sfumatura, ma significativa», ha avvertito il professore aggiungendo misteriosamente che «anche la scelta delle parole restituisce una diversa idea della democrazia e dell’inclusione». Già, perché fra gli inconvenienti dell’elezione diretta del presidente della Repubblica ci sarebbe quello di avere ogni volta un vincitore e uno o più sconfitti, ossia esclusi, come i «sudditi» - anziché «cittadini» negli «altri regimi».

Noi italiani, anche quelli nati e cresciuti dopo il fascismo, abbiamo secondo Zagrebelsky una specie di gobba, ancora più accentuata del compianto Giulio Andreotti, che non ci permette d indossare l’abito del presidenzialismo. Scomodando addirittura il Tacito degli Annali Zagrebelsky ci ha accusati di “rudere in servitium”, cioè di “propensione di accorrere al servizio” dell’imperatore di turno. «Esiste - ha insistito il professore- una nostra attitudine a servire il potente che è ampiamente dimostrata dal consenso plebiscitario a Mussolini sotto il fascismo. Un affrettarsi sul carro del vincitore che può rovesciarsi anche nel suo contrario, ossia nell’abbandonarlo precipitosamente ai primi segni di debolezza». Con questi argomenti non politici, non filosofici ma addirittura antropologici, e un po' anche razzisti, diciamo la verità, dovremmo quindi difendere tutti l’intangibilità della Costituzione, a dispetto dell’articolo 138 che ne disciplina la “revisione”, testuale, fatta eccezione per la “forma repubblicana», precisa l’articolo successivo.