Non si è dovuto aspettare molto, neppure l’apertura formale della campagna elettorale con la presentazione delle liste e la definizione quindi concreta delle alleanze più o meno “tecniche”, come dice il segretario del Pd Enrico Letta parlando delle sue, per vedere gli effetti concreti, sociali e anche politici, della decisione di Sergio Mattarella di lasciare il governo di Mario Draghi al suo posto sciogliendo anticipatamente le Camere. Al suo posto - precisò di fatto il capo dello Stato- per un’amministrazione “ordinaria” di nome ma per niente di fatto in tempi che ordinari non sono, con tutte le emergenze che ci assediano.

Draghi, continuando a governare davvero, pur non candidato a niente nel nuovo Parlamento, dove altri se le stanno dando e dicendo di santa ragione dietro e davanti alle quinte per contendersi seggi ridotti e cariche, è rimasto il convitato, o addirittura il protagonista di pietra di questa stagione elettorale, per la prima volta d’estate nella storia della Repubblica. Egli continua ad essere una risorsa per i partiti, direi a loro dispetto, visto che molti di essi hanno cercato di liberarsene anzitempo con una crisi pazza quanto l’intera legislatura finita nei suoi marosi.

Sul piano internazionale, il più congeniale per il presidente del Consiglio a causa della sua notorietà e autorevolezza ben oltre i confini italiani, gli eventi stanno dando ragione alla linea da lui adottata all’apertura della feroce guerra d’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. La linea cioè del sostegno anche militare all’Ucraina per proteggerla, e proteggere con essa l’intera Europa, dal nuovo imperialismo di marca zarista dell’ex o post- sovietico Putin. Che forse ha festeggiato con troppo anticipo l’incidente politico, diciamo così, occorso a Draghi, senza rendersi conto che al novanta per cento delle probabilità la sua linea di contrasto alla Russia continuerà anche senza di lui, e per il rimanente dieci per cento ancora con lui a Palazzo Chigi. I giochi di Putin col gas, il cui prezzo è salito alle stelle, hanno reso ancora più attuale e stringente il problema posto da Draghi in un’Europa per un bel po' parzialmente riluttante di prendere anche su questo aspetto il toro per le corna.

Ma passiamo ai problemi interni occupandoci del nuovo decreto legge in arrivo per gli aiuti su cui si è appena svolto con i sindacati un confronto a tutto vantaggio di quel Draghi scambiato da Giuseppe Conte per quello che sotto le cinque stelle avevano sempre ritenuto che fosse, una specie di Dracula, prima che Grillo in persona, incontrandolo e parlandogli, lo scoprisse per quello che è: un uomo di governo avveduto nel momento del pericolo. Pur nell’avarizia del suo linguaggio da sindacalista quando deve riconoscere qualcosa alla controparte di turno, il “rosso” Maurizio Landini, il segretario generale della Cgil col quale Conte si era messo in concorrenza nelle scorse settimane reclamando “discontinuità” e “cambio di passo” in un documento sventolato sul tavolo del presidente del Consiglio, ha detto dell’incontro avuto col governo a Palazzo Chigi che esso “ha prodotto alcune prime risposte nella direzione da noi richiesta. Credo che la strada sia giusta. Valuteremo l’entità”, ha aggiunto.

Più generosi o espliciti sono stati i segretari generali della Cisl, Luigi Sbarra, e della Uil, Pierpaolo Bombardieri. “La valutazione - ha detto quest’ultimo- è positiva. Il governo si è impegnato con noi a fare interventi strutturali sulla decontribuzione per aumentare il netto in busta paga dei lavoratori dipendenti e ad anticipare la rivalutazione delle pensioni prevista per gennaio. Era quello che avevamo chiesto. Stop ai bonus, ma interventi strutturali”. Landini, in verità, non ancora dimagrito abbastanza, ha preferito continuare a tenersi in esercitazione con dimostrazioni di piazza annunciandone di nuove per l’ 8 e il 9 ottobre a prescindere, neppure lui sa esattamente contro chi perché in quei giorni il Parlamento eletto il 25 settembre non si sarà ancora insediato.

Ma difficilmente Conte credo che gli potrà fare compagnia con quel che avrà raccolto nelle urne a capo del “terzo polo” -“giusto”, “incomodo” e quant’altro- anticipato in questi giorni fra una telefonata e l’altra a Beppe Grillo. Che reclama altre vittime da sacrificare al suo passato di fondatore e al suo presente di garante del MoVimento 5 Stelle, dove uno deve continuare a valere uno e nessuno deve potere scommettere su deroghe al divieto di più di due mandati. Un divieto, anzi, che deve diventare legge dello Stato perché tutti i partiti diventino come il movimento grillino, cioè un mezzo manicomio. Dove il primo che si alza si mette in testa una padella e recita da re, anzi da imperatore.