Alla fine Giorgia Meloni la ha spuntata a metà sul fronte dell'indicazione del premier ma ha stravinto su quello dei collegi. La soluzione per il premier è salomonica: ognuno va con la propria lista, il proprio simbolo e il nome del proprio leader ben in vista sul medesimo. Poi chi prende un voto in più indica il premier, il che non significa necessariamente optare per il nome del leader che capeggiava sul simbolo. Al contrario, per tradizione e abitudine quei nomi sono bruciati in partenza, essendo troppo strettamente vincolati a un solo partito e non alla coalizione.

È vero che quella formula, la riproposizione del metodo adoperato nel 2018, era stata contrastata strenuamente nell'ultimo anno da Berlusconi e, in modo più sornione, da Salvini. Ma quella partita si era in realtà già chiusa con le Amministrative, la ratifica dei sondaggi a opera degli elettori reali, lo sfondamento dei tricolori nel nord.

Negli equilibri imposti dalle Amministrative l'indicazione del premier da parte del partito più votato era per Fratelli d'Italia la base di trattativa minima, già accettata prima che il super vertice di mercoledì aprisse i battenti, e oltre quel livello già acquisito la leader di Fratelli d'Italia non è riuscita ad arrivare. In compenso, e probabilmente come moneta di scambio, Giorgia Meloni ha ottenuto quel che voleva nelle candidature per i collegi uninominali. Con 98 collegi, contro i 70 assegnati alla Lega e i 40 a Forza Italia, è arrivata al 44 per cento dei collegi, molto vicina a quel 50 per cento per i suoi candidati che chiedeva.

Nel prossimo Parlamento i margini di azione della Lega e soprattutto di Forza Italia saranno dunque più limitati ma non certo inesistenti. Tutto dipenderà dai risultati elettorali, resi più che mai imprevedibili dall'incognita affluenza. Non si è mai votato in settembre, in una domenica di fatto ancora estiva. Non si è mai arrivati alle urne in una situazione così convulsa, dopo una legislatura sulle montagne russe, in seguito a una crisi tanto repentina da trovare uno schieramento già pronto ma l'altro ancora in cerca di comporre coalizioni e alleanze.

In queste nebbie una delle poche certezze è che la leader del primo partito della destra e quello del partito guida dello schieramento opposto hanno giocato di sponda per legittimarsi a vicenda, animati probabilmente dalla stessa visione strategica: riportare il sistema politico italiano al bipolarismo. Per quanto riguarda Fratelli d'Italia l'obiettivo è conclamato. Il tentativo di imporre subito una candidatura alla premiership ufficiale serviva proprio a blindare la coalizione affermando la logica bipolarista del maggioritario. Sul versante del Pd le cose sono molto meno limpide. La scelta di Letta di considerare la coalizione che sta provando a comporre solo «un'alleanza elettorale», imposta da una legge elettorale malfatta e formata da liste che non presentano programma né candidature alla premiership comuni ma si coalizzano solo per non essere schiacciate nella quota maggioritaria sembrerebbe andare in direzione opposta a quella del bipolarismo. In concreto, Letta informa di considerare queste elezioni come se si svolgessero con il proporzionale e non potrebbe fare diversamente dal momento che la vera speranza del Pd è proprio un esito tanto opaco da permettere un ritorno agli accordi con una parte della destra che permisero la nascita del governo Draghi.

La linea del segretario del Pd però è double face. Se da un lato impugna una logica proporzionalista per mantenere aperta la strada verso nuove larghe intese, dall'altro trattare gli alleati come occasionali compagni di strada utili solo per portare voti nel maggioritario significa anche resuscitare la chimera del partito a vocazione maggioritaria, o almeno della Quercia che giganteggia circondata da cespugli. La logica proporzionalista è necessaria nell'immediato, per provare a lasciare a palazzo Chigi Mario Draghi o, se l'attuale premier non sarà disponibile, una figura a lui molto simile. Ma in prospettiva Letta guarda al nuovo bipolarismo con sguardo identico a quello di Giorgia Meloni. In fondo, comunque vadano le cose per quanto riguarda la prossima maggioranza, le prossime Camere saranno dominate da Fratelli d'Italia e Pd e quelle Camere non potranno più esimersi dal varare una vera nuova legge elettorale. Non ci vuole troppa fantasia per profetizzare un incontro tra i due principali leader sulla strada del maggioritario.