«Sono venuto ad Akihabara per uccidere le persone. Non importava chi avrei ucciso». Sono le parole pronunciate al momento dell'arresto da Tomohiro Kato nel 2008. Aveva all'epoca 25 anni, una furia omicida si era impossessata del ragazzo giapponese spingendolo a lanciare un camion a tutta velocità contro i pedoni che affollavano il popolare quartiere dello shopping di Tokyo, tre persone rimasero uccise sul colpo, altre quattro vennero accoltellate da Kato sceso dal mezzo, il bilancio conto anche dieci feriti.

Si è trattato del più grande omicidio di massa mai avvenuto in Giappone in tempi recenti. Ieri Kato è stato giustiziato mediante impiccagione quasi quindici anni dopo i fatti avendo visto fallire il suo tentativo di convincere la Corte Suprema a commutare la sentenza di morte nel carcere a vita nel 2015. Ma quella di Kato è anche una vicenda che non riguarda solo la follia omicida, in un Giappone scosso ancora dall’omicidio dell'ex premier Shinzo Abe (anche lui ucciso da un giovane) l'esecuzione assume una valenza esemplare. Come l'uomo che ha freddato Abe anche Kato rappresenta in pieno la difficoltà di adattamento ad una società iper competitiva dove non è contemplato quello che viene definito fallimento e dove la cura della salute mentale rimane un tabù. Non a caso Kato spiego bene i motivi del suo gesto alla stampa: "le vittime si stavano godendo la vita, e avevano sogni, futuro luminoso, famiglie calde, amanti, amici e colleghi". Eppure Tomohiro Kato proveniva da una famiglia benestante, suo padre era un banchiere, era cresciuto nella prefettura di Aomori, nel nord del Giappone, dove si era diplomato in una delle migliori scuole superiori.

Fallì però gli esami di ammissione all'università e alla fine divenne un meccanico d'auto. Insuccesso sociale vissuto come una vergogna ma anche tanta solitudine, sono stati gli stessi pubblici ministeri che lo hanno condannato a rivelare che la fiducia in se stesso di Kato è crollata dopo che una donna con cui aveva chattato online aveva improvvisamente smesso di parlargli dopo che le aveva inviato una sua fotografia.

Sempre secondo il racconto della polizia la sua rabbia contro una società che sembrava respingerlo mettendolo ai margini crebbe ulteriormente quando i suoi commenti online, compresi i suoi piani per un atto omicida, non suscitarono alcuna reazione. Nonostante gli evidenti disturbi psichici le autorità non hanno avuto clemenza. In conferenza stampa il ministro della Giustizia Yoshihisa Furukawa ha affermato che "il caso è stato completamente processato nei tribunali e la conclusione finale dei tribunali è stata la condanna a morte... Ho prestato la massima attenzione possibile nel considerare questo caso".

Ma l'esecuzione di Kato ha riaperto il dibattito sulla pena di morte. Il Giappone infatti rimane uno dei pochi paesi sviluppati che ancora uccide i condannati nonostante le critiche dei gruppi internazionali e locali per i diritti umani. Le esecuzioni sono riprese quando il primo ministro Fumio Kishida è salito al potere alla fine del 2021. Prima di allora, il paese non aveva effettuato alcuna condanna a morte per due anni. Nel dicembre scorso pero tre persone sono state impiccate e quella di Kato è la prima esecuzione del paese quest'anno.

Attualmente più di 100 prigionieri rimangono nel braccio della morte ma non esiste un movimento di opinione pubblica abolizionista. Le sentenze di pena capitale in Giappone sono avvolte nel segreto. I condannati possono scoprire la loro sorte poche ore prima dell'esecuzione mentre le loro famiglie sono informate solo a morte avvenuta. La morte di Kato non è collegata all’omicidio di Abe ma sembra una risposta per rassicurare una popolazione profondamente disorientata. Non a caso il ministro Furukawa ha difeso l'uso della pena capitale dicendo: "Dal momento che non c'è fine ai crimini efferati, mi dispiace che la pena di morte rimanga necessaria. Pertanto abolirla non è appropriato".