I due atti formali sono stati compiuti. Il Presidente della Repubblica ha preso atto delle dimissioni di Mario Draghi e, dopo aver sentito i Presidenti delle Camere, le ha sciolte. La campagna elettorale sottotraccia, che molto ha già influito sulle vicende di questi giorni, adesso è alla luce del sole. Ma non sarà una campagna elettorale qualunque. Anche perché vi sono una serie di questioni preliminari che ne determineranno i connotati, oltre che, ovviamente, il risultato. La prima questione riguarda i singoli partiti. Questa è stata una legislatura di scissioni ed emorragie, a ulteriore dimostrazione della crisi verticale del sistema politico che ha avuto il suo azimut nelle convulsioni che hanno accompagnato la fine del governo. Convulsioni che continuano proprio sul versante delle compagini partitiche. Altre emorragie si stanno determinando, piccole e grandi quantitativamente, ma tutte molto rilevanti sul piano politico e simbolico. E’ il primo effetto della caduta del governo destinato a riverberarsi sulla campagna elettorale. Ma l’effetto Draghi certamente non si fermerà qui, comunque si voglia guardare la questione e al netto delle schermaglie, anch’esse però elettoralmente significative, su cause, responsabili, imputazioni di cui già sono pieni i giornali. Molto dipende dallo stesso atteggiamento del Presidente del Consiglio che ha mostrato in questi giorni tutta la propria personalità, con virtù e limiti, a seconda di chi la giudica. Draghi ha astrattamente tre strade. La prima è una netta presa di distanze dalla politica. E’ quella che si potrebbe chiamare l’opzione Cincinnato, colui che Tito Livio definì "Spes unica imperii populi romani" e che si ritirò nei propri possedimenti (salvo essere richiamato dopo qualche anno alla vita politica). E’ chiaro che Draghi non può lasciar cadere la penna sulla scrivania di Palazzo Chigi, ma potrebbe lanciare segnali di un chiaro disimpegno per il futuro. La seconda opzione è quella del wait and see. Draghi sarà il Presidente del Consiglio in carica, seppure dimissionario, fino al momento in cui si porrà il problema della sua successione. Nessuno può dire con certezza quale sarà il quadro politico allora.La terza, più remota, opzione, è quella di un suo impegno diretto in politica. Dini e Monti lo fecero. Ma Draghi, assodato il valore di tutti e tre, non è né l’uno né l’altro. Certo quelle di mercoledì al Senato e il riferimento diretto alla volontà degli italiani non sono state solo le dichiarazioni di un Premier tecnico, ma un denso discorso politico, comunque se ne vogliano valutare i contenuti e le sfumature. Quel che è certo è che, quale che sia la scelta di Draghi, in campo ci sono già i “draghiani”. Al momento in ordine sparso, ma è probabile che cercheranno di costituire un fronte comune. Questo è il punto cruciale. Perché contribuirà a definire il discrimine sul quale si giocherà la campagna. Assisteremo al classico scontro tra destra/sinistra o a quello, di recente conio, tra draghiani e non? Le due cose non sembrano sovrapponibili. A destra come a sinistra il riferimento all’esperienza del governo non è infatti omogeneo. E’ da escludere, ad esempio, che la prospettiva del campo largo con i Cinquestelle possa conciliarsi con un’alleanza del PD con la galassia centrista che punta molto, se non tutto, proprio sulla evocazione di un riformismo ispirato dall’esperienza dell’esecutivo in carica. Ma quale delle due prospettive assicuri maggiori possibilità di successo elettorale è tutto da vedere. E, alla fine, sono i voti quelli che conteranno. Anche nel centro-destra il posizionamento programmatico non appare affatto scontato. Difficile ritenere che i partiti di quell’area che hanno appoggiato il governo Draghi (il “centrodestra di governo”) siano disponibili a farsi relegare in una posizione puramente antagonistica. E gli stessi Fratelli d’Italia, con l’opzione atlantista sulla guerra e adesso, per esempio, facendo filtrare alcuni nomi per un possibile esecutivo che vincesse le elezioni, sembrano aver chiara l’importanza di segnalare una discontinuità rispetto alla collocazione che, a torto o a ragione, viene loro attribuita. La partita sarà, dunque, molto più complessa di quello che potrebbe apparire. Magari sarà solo per convenienza elettoralistica, ma non è detto che lo psicodramma che abbiamo appena vissuto produca il gioco delle parti che semplicisticamente ci si potrebbe aspettare. E seppure è sicuramente molto presto per dire se l’ondata populista abbia ormai toccato l’acme della propria parabola, è difficile pensare che tutto resterà come prima anche su questo versante. L’Italia vive una delle fasi più difficili della propria storia recente. Se l’offerta politica nella campagna elettorale si limitasse a replicare i soliti schemi, non solo rischierebbe di ritorcersi contro i partiti che si limitassero a questo, ma certificherebbe definitivamente che siamo arrivati al capolinea. E questa volta sarebbe veramente complicato nasconderlo al mondo intero.