C’è un fatto casuale solo in apparenza. Nell’estate del 2021 due giornaliste e docenti, Chiara Lalli e Sonia Montegiove, si chiedono: qual è lo stato di attuazione della legge 194 sull'interruzione di gravidanza? La loro ricerca diventa il libro pubblicato a inizio giugno del 2022: Mai Dati. Dati aperti (sulla 194). Perché sono nostri e perché ci servono per scegliere ( Fandango Libri). A venti giorni dall’uscita del libro, la Corte Suprema americana abolisce la storica sentenza su cui si reggevano le garanzie costituzionali del diritto all’aborto negli Usa. I singoli stati americani sono ora liberi di applicare le loro leggi in materia. La notizia circola largamente e un tema che fino al giorno prima interessava pochi diventa per qualche tempo materia di dibattito pubblico. Pare una coincidenza dettata dalle sintonie imperscrutabili fra i fatti del mondo e le fortune editoriali. Pare soltanto però. “Mai Dati” è un libro che si regge sul tempo condizionale, fin dalla sua stessa esistenza. È il resoconto di una ricerca, quella di dati aperti e aggiornati sulle possibilità di accesso al diritto all’aborto, che avrebbe dovuto essere condotta dal soggetto centrale del sistema sanitario, il ministero della Salute. Che invece stende una relazione di attuazione fornendo dati chiusi, aggregati per regione e vecchi di due anni.

È il racconto di una caccia condotta a suon di richieste di accesso civico generalizzato ai singoli ospedali per sapere se effettuino interruzioni volontarie di gravidanza, quanti ginecologi abbiano, quanti fra loro siano obiettori di coscienza e tutto il resto dei dati necessari a sapere se un aborto in Italia è possibile farlo, dove, come e quando. Una caccia che avrebbe dovuto essere semplice, poiché si è avvalsa di uno strumento che ogni cittadino può usare per chiedere dati. E che invece s’è risolta in una trafila caparbia di mail, pec, telefonate, solleciti, attese. Tentativi su tentativi di ottenere risposta. Una prova per la volontà di chi l’ha condotta e una manifestazione plastica di come stiano le pubbliche amministrazioni che, con le parole delle autrici, “mostrano la costante tensione tra il digitale e il cartaceo, tra la modernità e un passato ingombrante che fa da gabbia, tra il desiderio di efficienza e l’impossibilità di sfruttare al meglio le potenzialità delle tecnologie digitali di cui potremmo disporre”.

Ma non solo. “Mai Dati” è anche un saggio di divulgazione scientifica, che stende ordinatamente le buone ragioni a favore di una cultura attenta all’importanza, alla qualità e alla pubblicità dei dati ben organizzati. Una cultura che dovrebbe sostenere ogni intervento pubblico, tanto nella sfera della comunicazione quanto in politica, perché questi interventi siano utili. E che al contrario si incaglia in una fantasiosa risma di risposte, dal confuso all’evasivo all’inadempiente. Infine, “Mai Dati” è anche un brillante manuale su come condurre una ricerca. Le argomentazioni si rincorrono in modo chiaro, si dà spazio a idee divergenti dalla propria e se ne discute sul piano razionale, si mostra la realtà di un fenomeno fino a sgrondarlo dei secolari pregiudizi morali per lasciarlo essere quel che è: un servizio medico. Una questione di salute pubblica. E, ancora, una ricerca dovrebbe sempre essere condotta così, ci mancherebbe. Ma torniamo all’apparente caso iniziale. Siamo sicuri di aver visto o letto in questi giorni delle opinioni fondate su qualcosa di più di posture morali, spesso penitenti e in ogni caso mai capaci di scalfire il pregiudizio dei pregiudizi: che l’aborto sia solo una faccenda di coscienze? Che sia per forza un trauma? Che la sensazione debba sempre prevalere sugli strumenti della logica perché è pratica dolorosa, sotterranea, alla fin fine un poco truffaldina?