Prima la gogna, poi il verdetto dell’aula. Il copione di Anatomia di uno scandalo è dei più classici: un’accusa di stupro travolge la carriera di un politico di successo. E una vita che sembrava perfetta si trasforma in un incubo. Finale già scritto? Non proprio. Nella miniserie Tv firmata Netflix, tratta dall’omonimo romanzo di Sarah Vaughan, gli ingredienti si mischiano senza grosse sorprese, restituendo un perfetto quadro post Metoo. Sesso, potere, tabloid - non manca nulla. Ma ciò che distingue questo racconto in 6 puntate è la “morale” aperta: ognuna la trae per sé. Perché un politico può anche sopravvivere a uno scandalo, può andare alla sbarra ed essere assolto, e magari anche rimettersi in corsa. Ma quando i riflettori si accendono dentro le mura di casa, il ritratto di famiglia va in pezzi, un sistema di valori consolidato finisce sotto la lente e l’impegno politico non ha più rilevanza: conta l’uomo. L’uomo in questione è James Whitehouse (Rupert Friend), il ministro “più bello” della Gran Bretagna, conservatore, miglior amico del primo ministro. James fa cose buone, è amato, stimato, piace anche ai liberal. Ha due figli piccoli, una moglie bellissima, Sophie (Sienna Miller).Perché mai avrebbe dovuto stuprare una donna? Forse perché si sente al di sopra della legge, ci suggerisce la sceneggiatura. James è il prodotto della più alta borghesia inglese, è abituato a non chiedere mai, il privilegio per lui è uno stile di vita. Basta fare un salto nella casa di campagna di sua madre, o spulciare nel suo passato a Oxford per rendersene conto. Il futuro di James era già scritto, nessun intoppo. Eccetto uno, e di enorme portata. Siamo a Londra, Westminster. Sophie scopre che suo marito ha avuto una relazione clandestina con una giovane collaboratrice parlamentare, Olivia Lytton (Naomi Scott). È stato James a confessare, prima che la storia finisse su tutti i giornali. Sophie non ci pensa due volte, vuole salvare il suo matrimonio, tenere insieme la sua famiglia. Ma i guai sono appena iniziati: arriva l’accusa di stupro, i media ci sguazzano. E la vicenda finisce in tribunale. «Alla giuria non piace lo stupro all’interno della coppia», osserva la pubblica accusa. La sua tesi è fragile, si regge sul confine che separa il consenso dalla violenza. Un confine stabilito dalla legge in tre punti: una persona A commette un reato se l’atto sessuale con B è effettivamente avvenuto, se B non vi acconsente, e se A non è ragionevolmente conscio che B acconsenta. «Non è più complicato di così», spiega la tenace avvocata dell’accusa, Kate Woocroft (Michelle Dockery). Ma in realtà lo è eccome, perché «perseguire l’aggressione sessuale è tanto urgente quanto frustrante». «Non dimentichiamo - commenta Woocroft - che in Inghilterra abusare della propria moglie non era un crimine fino al 1991». La questione non è solo giuridica, è culturale. E politica. Bisogna dimostrare che chi accusa non mente (mai il contrario), che anche dove c’è una relazione può esserci un abuso. Il processo si riduce a due lettere, un “no” pronunciato a denti stretti, per definire quell’atto come uno strupro o un “atto di passione sfrenata”. La difesa in questo sembra avere la strada spianata. Una splendida Josette Simon, nei panni di Angela Regan (legale di lui), fa del controesame un capolavoro di ragionevoli dubbi. Si beffa della liturgia da parrucca che pretende di ammantare di sacralità la giustizia britannica. E va dritta al punto. James ha ammesso la relazione, l’accusa di stupro non sta in piedi: tutti gli credono, compresa sua moglie. Persino i sondaggi vanno alla grande. Ma poi l’idillio si spezza, le cose precipitano. Insieme a James rischia di colare a picco l’intero governo. Bisogna lasciarlo sprofondare nel baratro? Il primo ministro non vuole saperne, non cede alle pressioni della controparte politica e del suo stesso partito. «Da quanto mi risulta un uomo accusato non è un uomo condannato. Fino a quando un’accusa non viene dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio, in un tribunale di giustizia, un uomo che abbandona un collega e un amico di vecchia data, non è solo inaffidabile, ma anche senza spina dorsale». Un manifesto di garantismo o puro opportunismo politico? Ecco l’altro cuore di questo thriller psicologico riadattato da Melissa James Gibson e David E. Kelly, per la regia di S. J. Clarkson. L’esito del processo lascia gli spettatori a fare i conti con uno dei temi più delicati e discussi dei nostri tempi. I personaggi non sono reali, ma sono calati perfettamente nella realtà. I loro drammi sono da prima pagina, e incrociano l’attualità al punto da fare di Anatomia di uno scandalo uno dei titoli più amati di Netflix. «È una serie tv degna di essere divorata, ma si spera anche che ti lasci pensare », dice la sceneggiatrice. «È uno studio di un comportamento e di una psicologia - aggiunge -. Il denominatore comune delle persone che cercano di farla franca con cose del genere è che pensano che le regole, personalmente o professionalmente, non si applichino a loro». Da una parte il potere, qui sinonimo di impunità, dall’altra due donne, legate a doppio filo con un colpo di scena. E in mezzo quel “no”, che assolve o condanna James Whitehouse.