«Non mi stancherò di ripetere che la Costituzione parla di pene, non di carcere. E per le condanne inferiori ai quattro anni, sarà il giudice, direttamente al momento della sentenza, a stabilire la pena opportuna». Negli ultimi giorni è questo il mantra della ministra della Giustizia Marta Cartabia. Lo ha ripetuto lunedì, intervenendo alla cerimonia per i 205 anni della fondazione della polizia penitenziaria. Lo aveva annunciato la scorsa settimana rispondendo ad una interrogazione della deputata di Iv Lucia Annibali: «Penso sia opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio - aveva detto Cartabia - che ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere». Sembra che la Guardasigilli abbia voluto rispondere indirettamente alle critiche a lei mosse dalle pagine del Fatto. È la seconda volta che la ministra replica a distanza alle critiche del giornale diretto da Travaglio: lo aveva fatto qualche mese fa per difendere la sua scelta di nominare Renoldi come responsabile a Largo Luigi Daga. «Sul nuovo capo del Dap aveva sottolineato - non mi affido alle opinioni espresse da un giornale, vediamolo lavorare e dopo ne riparliamo».

Ma la partita più difficile la ministra la dovrà giocare a luglio, quando lo schema di decreto legislativo sulla riforma del processo penale sarà sottoposto al vaglio di un Consiglio dei Ministri, per poi approdare nelle commissioni parlamentari di competenza per i pareri. Entro il 19 ottobre il testo definitivo deve essere pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Dunque bisogna marciare spediti senza creare strappi nella maggioranza già in bilico, ma soprattutto perché questo traguardo è uno degli obiettivi da raggiungere entro la fine dell'anno per ottenere i fondi del Pnrr. In teoria dovrebbe filare tutto liscio per due motivi.

Primo: la Cartabia non ha detto nulla di nuovo, perché quella previsione è prevista nella legge delega che questo Parlamento ha approvato. Secondo: già oggi, secondo la legge 689/ 1981, il giudice nel pronunciare la sentenza di condanna, quando ritiene di dover determinare la durata della pena detentiva entro il limite di due anni, può sostituire tale pena con la semidetenzione, entro il limite di un anno con la libertà controllata, entro il limite di sei mesi con la pena pecuniaria.

La riforma Cartabia prevede di innalzare da due a quattro anni il precedente limite. Inoltre, già secondo l'articolo 656 comma 5 cpp, di norma, per condanne inferiori ai quattro anni si può chiedere l'accesso alle misure alternative.

Quello che la legge delega prevede di diverso è che anche in questo caso sia il giudice di cognizione a decidere, senza attendere i tempi, spesso lunghi, del Tribunale di Sorveglianza. La pena detentiva inflitta entro il limite di quattro anni potrà essere sostituita con la semilibertà o con la detenzione domiciliare; quella inflitta entro il limite di tre anni anche con il lavoro di pubblica utilità; quella inflitta entro il limite di un anno altresì con la pena pecuniaria. Si badi bene che le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi potranno essere applicate solo a discrezionalità del giudice, ossia quando ritenga che contribuiscano alla rieducazione del condannato e assicurino la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati. Inoltre si prevede l’inappellabilità della sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità.

Questo scenario, insieme alla non punibilità per particolare tenuità del fatto, alla sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato e all'estensione dei casi di procedibilità a querela tra i reati contro la persona e il patrimonio, è tra gli interventi capaci di produrre significativi effetti di deflazione processuale. Inoltre eviterà l'entrata in carcere di migliaia di soggetti e farà loro scontare la pena sostitutiva ad una certa vicinanza dalla commissione del reato.

Secondo i princìpi costituzionali e internazionali, la detenzione infatti è l’extrema ratio. Persino nei severissimi Stati Uniti il numero delle persone che sconta la pena attraverso misure alternative (probation/ parole) è maggiore di quelle detenute ( 67% contro 33%). In Italia non va diversamente: sono circa 54mila i reclusi, mentre quelli in esecuzione penale esterna circa 75 mila. Ma filerà tutto liscio? Il Partito Democratico e Italia Viva sicuramente staranno dalla parte della ministra. D'accordo, con riserva, anche Pierantonio Zanettin, capogruppo di Fi in commissione giustizia: «Siamo sempre stati a favore delle misure alternative per contrastare il sovraffollamento carcerario, ma questa prospettiva deve viaggiare insieme a quella per la prevenzione del crimine. Quindi, ad esempio, mi auguro che venga potenziato l'uso dei braccialetti elettronici». Più problemi per la Cartabia arriveranno dai 5Stelle: per l'onorevole Eugenio Saitta «dobbiamo valutare attentamente i dettagli della delega, casomai direttamente in un incontro con la ministra prima che porti il testo in Cdm».

Mentre per l'onorevole Gianfranco Di Sarno di Insieme per il Futuro «sicuramente il problema del sovraffollamento carcerario merita una attenta riflessione, soprattutto se 7 detenuti su 10 sono reclusi per pene molto basse. Attenzione però a non includere nella riforma reati che, seppur non gravi, sono ritenuti particolarmente odiosi per la società civile, ad esempio quelli legati alla droga o alla violenza sulle donne».

Molti dubbi li ha espressi anche il deputato della Lega Jacopo Morrone: «Il tema ci lascia molto perplessi. Non sottovalutiamo l’importanza, in casi ben definiti, delle misure alternative, ma, personalmente, non sono convinto che la scarcerazione di soggetti il cui reato è stato accertato in via definitiva sia una soluzione, per esempio per scongiurare il sovraffollamento degli Istituti. Siamo garantisti fino alla condanna definitiva, ma, una volta accertata la colpevolezza, crediamo che la pena debba essere certa, qualunque durata abbia. Non vorremmo che questa opzione, che riguarderebbe un terzo della popolazione carceraria italiana, fosse interpretata come un “liberi tutti” o passasse l’idea che si preclude ai cittadini il diritto ad ottenere giustizia. Nell’ultimo rapporto Eurispes, da cui il sistema della giustizia italiano esce alquanto ammaccato, fra le critiche ci sono la lentezza, la sensazione che la giustizia non sia uguale per tutti e, per il 13,6% degli intervistati, l’assenza della certezza della pena. Dati che ci devono comunque far riflettere».