Lo stop alla produzione di motori endotermici decisa nelle scorse settimane dall’Europa con effetto dal 2035 segna una svolta epocale, che se non ben gestita avrà impatti mai visti sul tessuto economico e produttivo del nostro Paese. E così è per una serie di ragioni tutte fortemente concatenate fra loro, di cui sono ancora in pochi ad avere una chiara e netta percezione, specialmente per quel che riguarda le ricadute occupazionali. Si dirà: mancano 12 anni, di tempo ce n’è. È falso. È pericolosamente falso. Per comprendere l’entità del problema proviamo a mettere a fattor comune alcuni ragionamenti, peccando di semplicismo per esigenza di sinteticità: la produzione di auto è oggi in larga parte orientata verso l’endotermico, e questa produzione occupa milioni di lavoratori in Europa, centinaia di migliaia in Italia. Gli investimenti in produzione di modelli nuovi sono ingenti (l’unità di misura è il miliardo di euro, per intenderci) e richiedono periodi di tempo per la loro realizzazione medio lunghi, ma soprattutto orientano l’organizzazione delle imprese che li realizzano, le strutture fisiche dove vengono costruiti i componenti (le ultime grandi fabbriche), le professionalità delle persone che vi lavorano e che si costruiscono in anni entro sistemi produttivi connotati da elevata specializzazione tecnica. Dalle decisioni delle case produttrici e dai loro investimenti dipendono, poi, le lunghe filiere di produttori dell’indotto, in un macro-processo di parti intrecciate che si replica in basso su diversa scala, e dall’assetto produttivo passa a quello organizzativo per toccare la forza lavoro, che per costruire una macchina o suoi componenti è ancora oggi numerosa (non a caso parliamo di distretti produttivi territoriali, attorno ai quali si sono costruite realtà sociali, mondi fatti di persone). Un cambiamento “in testa”, quindi, comporta la necessità di riorientare tutto il mercato, come un domino: tutta la filiera produttiva viene interessata, e ciò richiede risorse gigantesche per le case produttrici chiamate a riprogrammare il futuro della loro produzione (certamente in Europa), la rete di supply chain investita dalla necessità di attrezzarsi per essere in grado di offrire la novità dei prodotti richiesti, e non da ultimo le persone dei lavoratori, investiti dalla necessità di cambiare pelle, professionalità, competenze, perché i componenti richiesti dalle auto elettriche sono diversi, e nella consapevolezza che di persone, questo mega cambiamento, ne richiede un 30% in meno a quanto dicono. Solo in Italia parliamo di 75.000 posti di lavoro che andranno persi, ma non fra 12 anni: molto prima, a partire dal 2025, perché un’altra cosa certa – e qui l’Italia viene messa alla prova della sua storica tendenza ad “arrivare all’ultimo” – è che una simile vicenda richiede interventi immediati, che le case automobilistiche faranno da subito e in parte stanno già facendo, proprio per le caratteristiche tipiche del settore (ritorno investimento e produzione nel medio lungo periodo). Ma il passaggio obbligato all’elettrico non impatta solo il mercato automotive, si allarga attorno ad esso, con effetti negativi e anche positivi: andrà cambiata la rete autostradale, con la diminuzione delle aree di servizio a carburante e l’installazione di piazzole di ricarica. E il tempo di ricarica potrebbe nel futuro non essere mai pari a quello (velocissimo) di un pieno, così che cambierà forse la ricettività autostradale (qualcosa le persone, i loro bambini e gli animali dovranno pur fare mentre la batteria si nutre). Servirà sicuramente più energia di quella che oggi abbiamo a disposizione, e allora diventerà obbligatorio discutere dell’apertura di nuove centrali, magari riscoprendo il nucleare, come pure si dovrà provvedere alla produzione di batterie e al loro smaltimento. Quello che si vuol dire, insomma, è che certamente non si tratterà di un cambiamento indolore, ma il processo innescato comporta come ogni cambiamento la nascita di nuove opportunità, di nuova occupazione, il che a sua volta comporta la necessità, l’urgenza, di concentrarsi da subito sul lavoro, per mettere in piedi una politica che sappia programmare e gestire la transizione, rendendo il paese attrattivo per la realizzazione degli investimenti che l’elettrico richiede, scongiurando la desertificazione a favore di altri paesi più veloci di noi. Occorre con urgenza massima mettere mano alle regole e alle strumentazioni in grado di accompagnare le aziende nel cambiamento, favorendo e sostenendo le persone nei percorsi di formazione adeguati ad acquisire o nuove competenze utili nelle nuove catene produttive elettriche, oppure competenze totalmente nuove da impiegare nelle altrettanto nuove opportunità che questo mutamento porta con sé. L’errore più grande che potremmo fare, adesso, è pensare di “tamponare” i problemi fermando il tempo con ammortizzatori sociali, senza mai avere il coraggio di affrontare la situazione in modo radicale, perché a questo giro tempo non ce n’è più, per nessuno. *Equity partner LabLaw Studio legale