Secondo una vulgata di Palazzo, Giuseppe Conte non brilla per coraggio. Strilla, strilla, ma alla fine non ha mai la baldanza dello strappo. Unattitudine, quella alla prudenza estrema, sviluppata dopo la lezione del Papeete e abbondantemente utilizzata durante il suo secondo governo. Ma, dicevamo, di vulgata si tratta. Perché a ben guardare Conte è tuttaltro che un mite avvocato catapultato nel mondo della politica. E per rendersene conto è sufficiente riavvolgere il nastro di un solo anno, lanno della scalata al Movimento 5 Stelle. Dopo essere stato disarcionato da Palazzo Chigi, infatti, lex premier, forte di un consenso popolare ancora alto, ha concentrato ogni sua energia nella ricostruzione di un partito rimasto senza guida. Un percorso accidentato, pieno zeppo di insidie e scogli da aggirare per plasmare un carrozzone lacerato da una guerra fra bande favorita da una non organizzazione capace di cristallizzare rendite di potere inamovibili: un pezzo a Beppe Grillo, un pezzo a Davide Casaleggio, un pezzo a Luigi Di Maio. Il tutto retto da uninfinità di non detti, non scritti e consuetudini che solo un profondo conoscitore della grammatica pentastellata avrebbe potuto comprendere. Insomma, governare quella macchina anarchica e autoritaria allo stesso tempo sarebbe stata impresa ardua per chiunque, figurarsi per un leader estraneo a quella storia e spuntato dal nulla. Ma forse è stata proprio questa la forza di Conte, che invece di perdersi in indistricabili trattative barocche condotte col misurino dei contentini, è entrato come un panzer nella casa grillina spianando via vecchie liturgie e avversari interni. E nel giro di pochi mesi lavvocato è riuscito a fare ciò in cui chiunque prima di lui, Di Maio compreso, aveva fallito: rottamare lintero gruppo dirigente pentastellato. Uno alla volta lex premier ha licenziato Casaleggio, figlio del cofondatore e dominus assoluto di Rousseau, ridimensionato a un ruolo poco più che onorario lo stesso Grillo, accompagnato alla porta Di Maio, il volto politico più noto e potente del Movimento dalla cui fantasia era nata lidea di trasformare Conte in un presidente del Consiglio. Difficile definire prudenza o indecisione questo modo di incedere. Nel giro di un anno il presidente grillino è stato in grado di realizzare quel sogno che Renzi nel Pd non è riuscito a portare a termine in un percorso durato oltre sei anni: esautorare la ditta. Senza la spocchia dello «stai sereno», del «Fassina chi?», del «ciaone», ma col passo felpato e brutale dellavvocato con la pochette. Il senatore di Rignano sullArno alla fine ha dovuto fondare un nuovo partito per avere una piccola arena senza avversari interni, Conte ha rifondato il suo. Forse entrambi saranno destinati allirrilevanza politica ed elettorale. Ma di rottamatore vero, a conti fatti, ce nè solo uno.