L’istituto carcere evoca alla mente del comune cittadino, e spesso anche di chi vive quotidianamente i tribunali, l’idea dell’autore di reato, certamente colpevole anche in assenza di una sentenza che lo abbia accertato, da punire per rieducare e della vittima di quel reato che va tutelata; quasi mai genera riflessioni sulla famiglia del detenuto e, in particolare, sul diritto alla genitorialità negata ai suoi figli, soprattutto minorenni, che, improvvisamente e senza colpa, sono privati dei genitori o sono costretti a viverli all’interno di istituti penitenziari.

Il 23 febbraio scorso è iniziato, alla Commissione Giustizia della Camera, l'esame della proposta di legge d’iniziativa del deputato Siani, approvata alla Camera dei Deputati ed in attesa dell’approvazione definitiva del Senato, volta a ridurre, all’interno degli istituti penitenziari, la presenza di bambini minori di sei anni, costretti a vivere con le madri in un regime di privazione e reclusione, tra sbarre, cancelli rumorosi e divise penitenziarie.

La riforma, sovvertendo la legislazione attuale, prevede che le madri ( o in casi residuali i padri) di bambini fino a 6 anni di età debbano essere ristretti in case famiglia e, solo qualora sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, negli ICAM; mai in carcere. Si interverrà a tal fine con l’elisione di ogni riferimento alle esigenze cautelari di eccezionale rilevanza contemplate nell’art. 275, co. 4, c. p. p. e con la modifica dell’art. 285- bis c. p. p., che prevederà espressamente l’applicazione della custodia cautelare negli ICAM, solo qualora sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, nonché degli artt. 293 e 656 c. p. p. che disciplinano rispettivamente le modalità esecutive delle misure cautelari e delle pene definitive, per evitare che il giudice della misura e il Magistrato di Sorveglianza sappiano dell’esistenza di un figlio minore solo dopo avere disposto la carcerazione della madre. Affinché il progetto possa avere una realizzazione concreta, l’articolo 3 del DDL, modificando la legge n. 62/ 2011, elimina il vincolo normativo connesso alla realizzazione delle case famiglia protette senza oneri per lo Stato, che ha di fatto impedito la diffusione di queste strutture sul territorio nazionale, in modo che l’amministrazione centrale possa scegliere di finanziarne di nuove. Se, dunque, il problema del diritto del minore a vivere, in modo sano, la maternità sembra aver destato l’attenzione dell’opinione pubblica e dello Stato, nessuna considerazione sembra destinata al diritto alla paternità per il minore di padre detenuto.

Come si può spiegare ad un bambino che non potrà più vedere suo padre perché è detenuto o che potrà vederlo soltanto in orari e giorni stabiliti in condizioni di poca intimità ed in ambienti freddi non adatti ai minori? Come si può chiedere, o addirittura imporre, al minore di regolare il proprio amore e, di conseguenza, il proprio bisogno di affetto paterno, in funzione dello status giuridico del padre o del delitto che il genitore ha commesso? Quell’uomo ristretto in carcere è sempre e comunque il padre e, per poter crescere in modo sano, il bambino dovrà conservare un rapporto con lui.

La CEDU, il 17 Novembre 2015 ( ricorso n. 35532/ 12 Bondavalli c. Italia) ha ribadito che l’art. 8 della Convenzione, che ha essenzialmente ad oggetto la tutela dell’individuo dalle ingerenze arbitrarie dei poteri pubblici, non solo ordina allo Stato di astenersi da tali ingerenze ma può comportare l’adozione di misure volte al rispetto della vita familiare, tra cui la predisposizione di strumenti giuridici adeguati e sufficienti a consentire l’adozione di misure atte a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti fra i genitori. La Corte ha, altresì, chiarito gli Stati, oltre a vigilare affinché il minore possa raggiungere il genitore o mantenere un contatto con lui, debbano adottare misure che consentano di giungere a tale risultato; misure da attuare rapidamente, in quanto il decorso del tempo può avere conseguenze irrimediabili sulle relazioni tra il minore e il genitore non convivente.

Tali principi, sanciti in tema di diritto del minore alla bigenitorialità in presenza di genitori separati, devono estendersi ad ogni altra situazione, come quella detentiva, che costituisca un ostacolo al rapporto genitore- figlio. Basterebbe applicare le norme dell’ordinamento penitenziario che prescrivono di dedicare particolare cura “a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie” ( art. 28) e di finalizzare l’attività trattamentale proprio a “conservare e migliorare le relazioni dei soggetti con i familiari” ( art. 45) nella prospettiva costituzionale della pena volta alla rieducazione che non può prescindere dall’esistenza e dal potenziamento di una rete familiare esterna che, se accogliente, potrà impedire al detenuto di commettere nuovi errori, anche a tutela della collettività.

SABINA COPPOLA

Avvocata, Direttivo Associazione Pietro Calamandre di Napoli