Sarà che Sverodonetsk, con quei suoni tutti aguzzi, ha un nome meno suadente di Marioupol, sarà che la resistenza ucraina inizia a scricchiolare e che in fondo il Donbass rimane un’esotica polveriera di milizie e nazionalismi contrapposti che percepiamo (a torto) assai lontana dall’Europa. Sarà per tutti questi motivi ma è innegabile che da diversi giorni la guerra in Ucraina è scivolata in fondo nelle edizioni cartacee dei giornali e nelle timeline dei siti web.
Eppure negli impianti Azot di Sverodonetsk assediate dall’armata russa si sta consumando la stessa tragedia dell’Azovastal con migliaia di civili in trappola mentre nel Lugansk sono state scoperte fosse comuni e crimini contro i civili proprio come a Bucha. Sul fronte si continua a morire l’empatia dei primi tempi però non c’è più. Ma l’invasione di Putin non metteva in gioco la nostra stessa libertà, e gli ucraini non erano forse i “nuovi partigiani” che, come Davide contro Golia, resistevano al tiranno?
Parliamo in particolar modo della stampa “atlantista” che si è sperticata nelle lodi al presidente Zelensky e al coraggio dei suoi compatrioti, la stessa che ci ha mostrato le città ridotte in poltiglia, i corpi straziati sotto le macerie, i video con le esecuzioni dei civili. E che tuonava contro l’assuefazione e l’indifferenza all’orrore perché “je suis Ucraina” e così via. La sensazione, persistente e sgradevole, è che la guerra ci appassioni soltanto di riflesso, cioè nella misura in cui può animare il pollaio, generare polemiche politiche interne con tutto il noto campionario di invettive da talk show o da editoriale indignato che conosciamo.
Ci serve ossia per catalogare alleati e avversari nel giochino del “posizionamento”, «giornalisti con l’elmetto» da una parte, (Mieli, Riotta) loschi «putiniani» dall’altra (Orsini, Santoro). Entrambi a “libro paga”: chi della Cia, chi del Cremlino, a seconda delle narrazioni. I meschini attacchi agli ucraini che non si arrendono e «ci fanno aumentare le bollette del gas» e le vergognose liste di proscrizione del Corriere della sera in fondo sono le due facce della stessa medaglia e riflettono il carattere fazioso e provinciale del nostro dibattito pubblico, la scarsa propensione all’analisi e all’obiettività del nostro giornalismo, la mancanza di una sguardo che a volte riesca a volare oltre il cortile di casa.
Eravamo ucraini: ora la guerra sparisce dai media
Sarà che Sverodonetsk, con quei suoni tutti aguzzi, ha un nome meno suadente di Marioupol, sarà che la resistenza ucraina inizia a scricchiolare e che in fondo il Donbass rimane un’esotica polveriera di milizie e nazionalismi contrapposti che percepiamo (a torto) assai lontana dall’Europa. Sarà per tutti questi motivi ma è innegabile che da diversi giorni la guerra in Ucraina è scivolata in fondo nelle edizioni cartacee dei giornali e nelle timeline dei siti web.
Eppure negli impianti Azot di Sverodonetsk assediate dall’armata russa si sta consumando la stessa tragedia dell’Azovastal con migliaia di civili in trappola mentre nel Lugansk sono state scoperte fosse comuni e crimini contro i civili proprio come a Bucha. Sul fronte si continua a morire l’empatia dei primi tempi però non c’è più. Ma l’invasione di Putin non metteva in gioco la nostra stessa libertà, e gli ucraini non erano forse i “nuovi partigiani” che, come Davide contro Golia, resistevano al tiranno?
Parliamo in particolar modo della stampa “atlantista” che si è sperticata nelle lodi al presidente Zelensky e al coraggio dei suoi compatrioti, la stessa che ci ha mostrato le città ridotte in poltiglia, i corpi straziati sotto le macerie, i video con le esecuzioni dei civili. E che tuonava contro l’assuefazione e l’indifferenza all’orrore perché “je suis Ucraina” e così via. La sensazione, persistente e sgradevole, è che la guerra ci appassioni soltanto di riflesso, cioè nella misura in cui può animare il pollaio, generare polemiche politiche interne con tutto il noto campionario di invettive da talk show o da editoriale indignato che conosciamo.
Ci serve ossia per catalogare alleati e avversari nel giochino del “posizionamento”, «giornalisti con l’elmetto» da una parte, (Mieli, Riotta) loschi «putiniani» dall’altra (Orsini, Santoro). Entrambi a “libro paga”: chi della Cia, chi del Cremlino, a seconda delle narrazioni. I meschini attacchi agli ucraini che non si arrendono e «ci fanno aumentare le bollette del gas» e le vergognose liste di proscrizione del Corriere della sera in fondo sono le due facce della stessa medaglia e riflettono il carattere fazioso e provinciale del nostro dibattito pubblico, la scarsa propensione all’analisi e all’obiettività del nostro giornalismo, la mancanza di una sguardo che a volte riesca a volare oltre il cortile di casa.
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