Riportiamo di seguito alcuni estratti da “Per prima cosa, uccidiamo tutti gli avvocati”, il libro appena pubblicato dall’avvocato Stefano Bigolaro per la Cleup, editrice dell’Università di Padova. Bigolaro è anche un autorevole commentatore del Dubbio.

Il titolo

The first thing we do, let’s kill all the lawyers ( William Shakespeare, Enrico VI) La frase è curiosa, e insieme piuttosto truce. Ma il senso non è quello che appare. Nell’opera di Shakespeare, l’Enrico VI, è chi vuole impadronirsi con la violenza del potere e sovvertire l’ordine pubblico a incitare all’omicidio di tutta la categoria come prima cosa da fare. Dunque è un complimento agli avvocati, visti come difensori dei valori di giustizia e di civiltà.

Siamo troppi, e non godiamo neanche di buona fama, al punto che l’invito a eliminarci tutti può sembrare divertente. Ma la difesa che assicuriamo è fondamentale non solo per chi assistiamo, ma per ogni persona e per l’intera collettività.

Come pesci nell’acqua

Il dato di partenza è comprendere che il diritto amministrativo – questo mix fatto di regole, organizzazione, poteri, pubbliche amministrazioni – è ovunque. Insomma, siamo immersi nel diritto amministrativo, solo che non ce ne accorgiamo se non quando qualche occasione ci porta a pensarci. Siamo come pesci nell’acqua, che non si accorgono di esserci dentro, perché quello è l’ambiente in cui vivono.

Il giudice amministrativo spesso non gode di buona fama. Viene accusato di bloccare le opere pubbliche e di avere un effetto negativo sull’economia nazionale. Ma faccio davvero fatica a pensare a un sistema nel quale, di fronte a un potere amministrativo così pervasivo, non ci sia la possibilità di rivolgersi a un giudice che possa incidere su quel potere, se è esercitato in modo illegittimo.

Quando si parla di legalità tendiamo a pensare a vicende di criminalità organizzata o comunque al diritto penale. Ma la giustizia amministrativa è cruciale per garantire la legalità di tutto quel complicatissimo mondo amministrativo nel quale siamo inseriti. Serve a far sì che tutti noi, come pesci, non finiamo per trovarci a nuotare in un’acqua sempre più torbida.

Chi fa ricorso non dovrebbe essere ostacolato, perché – non importa che abbia torto o ragione – non tutela solo sé stesso, ma la legalità complessiva dell’agire amministrativo: tramite il suo ricorso si attua la possibilità di un controllo su una rete di poteri e scelte organizzative altrimenti impenetrabili.

Un mondo a parte

La giustizia amministrativa è un mondo a parte, che non c’entra con il Ministero della Giustizia ma con la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Un mondo complesso, su cui è delicato e difficile intervenire, ma che non per questo deve restare immutato nei secoli. Un mondo che, prima di tutto, va compreso.

E, dunque, partendo dai giudici: non sono tutti uguali. E i giudici amministrativi sono diversi dagli altri. Anzi, sono diversi anche al loro interno. Ci sono i giudici Tar. E ci sono i Consiglieri di Stato, diversi dai primi e diversi anche tra loro per provenienza ( metà di loro – a certe condizioni – dai giudici Tar, un quarto da concorso, un quarto da nomine governative).

I Consiglieri di Stato, poi, appartengono a un organo che ha funzioni non solo giurisdizionali ma anche consultive: dunque, non sono solo giudici, e certe volte non lo sono affatto. Si trovano a fare un lavoro ibrido, tra funzioni giurisdizionali, consultive, incarichi extragiudiziari.

Questa, in estrema sintesi, la struttura del sistema ( che ha una lunga storia). Ma poi – ed è sempre l’elemento più importante – ci sono le persone, che non sono tutte uguali.

Ci sono giudici con cui è un piacere lavorare. Non perché ti diano sempre ragione. Ma perché avverti che stai procedendo insieme in un percorso di giustizia: insomma, la condivisione di una funzione fondamentale per la collettività. Ci sono quelli più svogliati: per loro è un impiego come un altro. E ci sono dei giudici amministrativi che sono una vera sciagura. Sono casi isolati, sia chiaro, e noti. Ma il fatto che rimangano nel loro ufficio è la prova che il sistema non ha tutti gli anticorpi.

Una sintesi da portarsi dietro

Siamo entrati in un mondo diverso, sia nella nostra professione sia su una scala più ampia; e molte cose sono passate per sempre. Giorno dopo giorno non te ne accorgi, ma guardandoti indietro sì: la prospettiva si allarga, i tempi mostrano i loro effetti e rivelano le dinamiche.

È la digitalizzazione che sta cambiando e ha già cambiato profondamente il nostro lavoro. Le biblioteche di libri e riviste giuridiche ingialliscono, diventando sempre più pezzi di arredo. Sono come vecchie stilografiche cui ormai non cambi più l’inchiostro.

Un computer o anche solo uno smartphone forniscono già tutto quello che serve, e in realtà molto di più. Ti consentono di lavorare velocemente, aggiornato in tempo reale su tutto; e di lavorare ovunque, senza vincoli di orari, luoghi e spostamenti. Volendo, anche senza troppi vincoli di contatti umani.

Su internet gli studi legali cercano – e devono trovare – una visibilità che non è più quella della targa appesa fuori dal portone. E gli studi sono – sempre più spesso – studi aggregati, integrati, interprofessionali. Grandi, cioè, e lontani, ma telematicamente raggiungibili. Non più le realtà artigianali che conoscevamo. La concorrenza diviene feroce, sui prezzi e sull’immagine; i legami di solidarietà tendono ad affievolirsi. In molti casi, è ormai davvero un’attività d’impresa in un “mercato legale” allargato, e che infatti può essere svolta con partner finanziari.

Quando tutto cambia, puoi reagire in vari modi. Puoi passare al nuovo senza nostalgie per il vecchio: concentrarti cioè su vantaggi e opportunità, vada pure al macero il resto. Oppure puoi restare legato al vecchio mondo, guardando da lì il nuovo che si consolida.

Oppure provi a fare una sintesi di quello che pensi vada trasportato nel nuovo corso, di quello che pensi valga la pena salvare. Lo ammetto. Ho sempre sentito il bisogno di fare sintesi, mi viene naturale. E dunque – in sintesi, appunto – ecco alcune cose da portare con sé nel nuovo mondo della nostra professione: l’intelligenza, la competenza, l’impegno ( tre cose connesse, ma profondamente diverse tra loro); la determinazione e la motivazione ideale ( fare l’avvocato per ripiego, è meglio di no); il senso di responsabilità per ciò che facciamo ( ogni avvocato, in fondo, è sempre solo di fronte alle proprie scelte e responsabilità); la fedeltà alla propria funzione ( fare l’avvocato non è semplicemente un lavoro); e, infine, quella consapevolezza complessiva del ruolo che, con un’espressione vecchia e nobile, possiamo continuare a chiamare “onor di toga”.