La storia è di quelle che lasciano il segno, non solo sulle carni innocenti e martoriate dei familiari, ma nell’opinione pubblica tutta. Pochi giorni or sono è stato scarcerato, per andare ai domiciliari, Rosario Greco, rampollo di una famiglia di rilievo a Vittoria in Sicilia. Era stato condannato a nove anni di reclusione per l’omicidio colposo dei due cuginetti, Alessio e Simone D’Antonio, morti l’ 11 luglio 2019, travolti da un suv impazzito mentre giocavano davanti casa. La Cassazione ha rinvenuto un vizio formale nella decisione della Corte d’appello di Catania che aveva confermato la condanna del pirata della strada e, a quel punto, l’attenuazione del regime carcerario è stata praticamente inevitabile nell’attesa di un nuovo processo d’appello.

Il dolore delle famiglie è tutto nelle parole di Alessandro e Tony D'Antonio, genitori dei piccoli Alessio e Simone: «Siamo distrutti, ma che giustizia è questa? È uno schifo. Si chiama "ingiustizia", non giustizia. A meno di un mese dai tre anni dalla morte di Alessio e Simone, chi li ha investiti quella notte riducendoli a poltiglia è fuori dal carcere. Solo noi, noi genitori, abbiamo l'ergastolo». È una reazione comprensibile e giustificata che, come tale, merita rispetto.

Le vittime coagulano un dolore troppo grande perché, al primo intoppo o al primo inconveniente processuale, la rabbia non cerchi sfogo e il risentimento non imprechi contro le cedevolezze del processo penale. È uno snodo fondamentale del rapporto tra giustizia penale e vittime, soprattutto nella società polverizzata dei social in cui tutto prende rapidamente forma, e quel dolore crea solidarietà, rabbia, altro risentimento che corrono veloci e bussano in men che non si dica alle porte dei tribunali reclamando pene esemplari, severità, celerità. È successo altre volte, e tante volte capita, che un certo populismo demagogico cavalchi e strumentalizzi questo disagio e questa sofferenza puntando l’indice contro il processo penale, aizzando le folle contro le garanzie, dileggiando i giudici che decisioni “scomode” hanno pur dovuto prendere perché la legge fosse rispettata.

L’oclocrazia giudiziaria, il potere della piazza mediatica preme insonne all’uscio dei tribunali. Inscena manifestazioni pubbliche prima delle sentenze, commissiona interviste televisive e reportage prima che le corti si pronuncino, tenta di accreditare la condanna come un fatto scontato, ineludibile, predestinato dalla mole delle prove pesate a spanne o raccontate da protagonisti interessati. Capita talvolta che siano gli avvocati delle parti civili a svolgere questo compito che sembra così necessario nel decennio della piazza mediatica e che, senza mezzi termini, punta a mettere in difficoltà i tribunali, a incutere circospezione nei giudici, a rafforzare la credibilità delle proprie tesi. E se non basta si assoldano consulenti e criminologi disposti a sezionare le prove, a mostrare sempre il sospetto di una colpa. Un mondo fatto di incontinente aggressività che aizza la pubblica opinione cui si somministra la convinzione che alla condanna possano scampare solo i furbi colpevoli, che gli innocenti siano una fastidiosa eccezione, che i tribunali pullulino di azzeccagarbugli e di parrucconi paludati a caccia di cavilli.

Un’emittente radiofonica nazionale ha mandato in onda in diretta, lunedì mattina, l’intervista all’avvocato che rappresenta le famiglie dei poveri Alessio e Simone D’Antonio nel processo a carico dell’omicida stradale appena mandato a casa dai giudici catanesi. C’era da attendersi un profluvio di irritazione, di indispettita delusione. Potevano apparire scontate, prima, una critica alla decisione della Cassazione di annullare con rinvio la condanna, poi, la somministrazione di una bacchettata alla Corte siciliana che aveva concesso i domiciliari a Rosario Greco con altri sei anni di pena da scontare. Era facile farsi scudo del dolore dei propri assistiti, di quella rabbia così sensata.

Era facile appropriarsi dell’indignazione dei media per quella notizia e concedere agli intervistatori qualche spazio per cavalcare la tigre mediatica. Era facile, ma l’avvocato non l’ha fatto. Ha con cura, e senza alcun paludamento tecnico, spiegato le ragioni dell’annullamento della Cassazione e ha preso atto compostamente della decisione dei giudici catanesi che pur l’aveva amareggiato, ma il tutto senza muovere alcun rimprovero “morale” o cedere ad alcuna censura giustizialista. Rispetto dei giudici e fiducia nella giustizia. Merce rara che non guasterebbe anche nelle parole di qualche magistrato o ex toga fin troppo adusa alla critica demagogica e al complottismo giustizialista. Il nome di quel legale non conta in questa riflessione O forse si: avvocato Daniele Scrofani.