Dodici giugno, ultima chiamata per mettere Sì su tutti e cinque i quesiti del referendum Giustizia giusta, che un anno fa, in conferenza stampa, il Partito radicale annunciava di voler promuovere con la Lega. La chiamata è in prima battuta per l’Avvocatura, che ha un’occasione imperdibile: farsi legislatore sui temi che negli ultimi 30 anni almeno hanno martoriato il rapporto di fiducia dei cittadini con le aule dei palazzi della giustizia italiani. Quando, nell’occasione dei dodici quesiti referendari del 2013 proposti dal Partito radicale – 6 riguardavano la giustizia – il silenzio si faceva sempre più assordante, intervenne Marco Pannella, che su tutti i tg nazionali lanciò il suo appello: «Adesso vogliono riuscire ad impedirvi di fare una cosa straordinaria, questi referendum sono l’occasione di liberazione di tutti e tutte». Ebbene, niente di più vero ma anche niente di più attuale: nulla è cambiato in questi 9 anni. E allora siamo ancora qui, direbbe Vasco Rossi, che di Marco Pannella si sentiva l’alter ego musicale. Ci dobbiamo liberare da previsioni normative che, così come scritte e applicate, non rispettano i principi costituzionali della presunzione di non colpevolezza né quello della libertà personale come diritto inviolabile e fondamentale; da norme, che se non parzialmente o interamente abrogate, continueranno a violare i principi del giusto processo, della parità tra accusa e difesa, della libertà e indipendenza del potere giudiziario dalla politica che va a braccetto con le correnti della magistratura associata. Abrogare la legge Severino significa eliminare un automatismo dal nostro sistema penale: del resto sappiamo che esistono le sanzioni accessorie e che una di queste, l’interdizione dai pubblici uffici, perpetua o temporanea, è inflitta con sentenza dal Giudice che ne misura la durata caso per caso. Il punto centrale è che la sua applicazione avvenga di regola solo con la sentenza definitiva, cioè solo dopo che l’imputato, presunto non colpevole, sia stato condannato in modo definitivo con la pronuncia dell’ultimo grado di giudizio. La legge Severino al contrario agisce sulla ineleggibilità e incandidabilità ancora prima della sentenza definitiva, e persino nella fase delle indagini, in totale disprezzo degli esiti che all’ultimo grado di giudizio potrebbe avere il processo. Di ispirazione giustizialista e moralizzatrice, scambia la morale col diritto, scambia l’onore con il sospetto. È evidente che in uno Stato di Diritto solo una sentenza definitiva potrà legittimamente avere effetti interdittivi su un mandato, che peraltro non possiamo dimenticare essere legato a una scelta politica dei cittadini, i quali quel candidato hanno votato. I principi ispiratori di un Sì all’abrogazione della legge Severino sono gli stessi che riguardano il quesito sui limiti agli abusi della misura cautelare, per liberare tutti e tutte dalla pressione di una giustizia che non è giusta quando limita la libertà personale di un indagato o imputato ancora prima che sia condannato in via definitiva, e solo con l’argomento che lo stesso, anche per fatti non gravi – come quelli che sono elencati espressamente nell’articolo 274 comma 1 lett. c del codice penale –potrebbe reiterare il reato. Gli avvocati per primi votino Sì a questo quesito: lo sanno, gli avvocati, che nel 2020 i detenuti in misura cautelare erano poco meno di 25.000 su 61.000 reclusi totali, cioè quasi la metà della popolazione carceraria? Votare Sì al quesito sui limiti agli abusi della custodia cautelare significa impedire che il carcere preventivo diventi una vera e propria condanna anticipata, magari anche eseguita verso un innocente – come i numeri confermano. Dalla misura cautelare, il passaggio alla separazione delle funzioni è immediato, come immediato è il Sì al quesito: ancora una volta chi indossa la toga conosce le ragioni dell’immediatezza di pensiero. Il difensore sa bene che chi applica la misura è un giudice che dovrebbe – ma il condizionale è d’obbligo – controllare l’operato del pubblico ministero, il quale è magistrato e quindi col primo condivide la carriere, gli esami, i convegni e soprattutto le aspirazioni. Ci raccontano spesso i sostenitori del No che non c’è alcunché di male se un magistrato sia stato inquirente e poi diventi giudicante o viceversa: si tratta invece di non dimenticare quanto sia essenziale la forma mentis di chi amministra la giustizia nel processo, e se è vero – senza nascondersi dietro la foglia di fico del dovere di cercare le prove a discarico (non sanzionabile nel caso venga disatteso!) – che il magistrato requirente si deve occupare di cercare le prove per accertare la colpevolezza di un indagato e poi nel processo aspirare alla condanna a fronte di una avversa posizione rispetto alla difesa, il giudicante dovrà invece necessariamente sviluppare una capacità di terzietà e di rispetto dei valori di parità dell’accusa con la difesa, non senza dimenticare il principio della presunzione di non colpevolezza e quello del giusto processo. Anche gli altri quesiti meritano tutti il Sì dell’avvocatura: sui Consigli giudiziari ogni avvocato non potrà non andare al seggio a mettere una croce sul diritto dell’avvocatura di dare un voto all’amministrazione della giustizia, come condotta dai singoli magistrati del circondario. A chi obietta, dal fronte del No, che gli avvocati potrebbero essere imbarazzati da profili vendicativi del loro collega che siede in Consiglio giudiziario, si risponde serenamente che nei medesimi Consigli siedono anche i pubblici ministeri, che altrettanto potrebbero essere imbarazzati dal dare il voto sull’operato di quel giudice che potrebbe non aver risposto con la sua sentenza alle richieste della requisitoria dell’accusa. Il Sì al quesito che vuole riformare il Consiglio superiore della magistratura eliminando ogni obbligo di firme a proprio sostegno per chi si volesse candidare, è l’anello che chiude il cerchio di un lavoro di cesellatura, quello dei quesiti referendari, pensati e portati al voto non certo contro la magistratura, come qualcuno ha obiettato, ma per la magistratura, perché non solo sia ma anche appaia credibile. Sono 241mila e rotti gli avvocati italiani: se tutti andassero a votare Sì ad ogni quesito, si realizzerebbe finalmente quell’occasione straordinaria per l’avvocatura di mettere in chiaro che essere avvocati significa difendere la legalità della Costituzione, e quindi anche usare gli strumenti di cui si dispone per “liberare tutti e tutte” da norme che non tutelano la nostra Giustizia giusta. Ai cittadini una democrazia liberale riconosce il diritto alla conoscenza, che rende liberi di deliberare. Votare al referendum è l’occasione di diventare legislatori e di fare quello che il Parlamento non ha fatto fino ad oggi: anche questo diceva Marco Pannella, quando gli chiedevano il significato politico del referendum. Se il referendum è l’essenza della partecipazione del cittadino alla democrazia e il voto è un diritto e non va disperso, votare Sì significa intervenire sull’immobilismo del legislatore a proposito di temi essenziali per la nostra Giustizia giusta. Chi se non l’Avvocatura?

*Avvocato del Foro di Milano, consigliere generale del Partito radicale