Dario Fabbri, analista geopolitico e direttore di Domino, spiega che «se la Russia uscisse vincitrice, anche malandata, di questa guerra, finirebbe per consegnarsi a Pechino e ciò significherebbe per gli Stati Uniti trovarsi davanti una Cina più forte che mai». Per questo, aggiunge «Washington tenta di piegare Mosca in questa guerra, così da portarla nelle braccia dell’Occidente».

Si discute ancora delle parole di Kissinger, che ha esortato Kiev a cedere alcuni territori in cambio della pace. Pensa che l’ex segretario di Stato americano «dica cose sulla pelle degli ucraini», come ha spiegato il professor Parsi ieri su queste colonne?

Kissinger è il capostipite di una parte specifica degli apparati americani, cioè quella che ha sempre immaginato che il modo migliore di avere a che fare con l’Urss prima e con la Russia poi fosse una sorta di convivenza, invece che lo scontro frontale. In questo calcolo va da sé che l’Ucraina quasi non entra. È un approccio che è stato prioritario negli anni ’ 70, mentre oggi è minoritario sia rispetto al filone neoconservatore sia rispetto a quello dell’interventismo moralista che ritiene necessario condurre la Russia alla sconfitta per evitare che si schieri con la Cina.

A proposito di Cina, il rischio è che Mosca e Pechino si avvicino sempre di più e aumenti la tensione nel Pacifico. Come evitare tutto ciò?

La relazione strategica più importante del mondo è quella tra Stati Uniti e Cina, ma il punto è che gli Stati Uniti hanno davanti a sé due potenziali nemici, non solo uno. Quando si può, la scelta è semplice: si prende il più debole, lo si avvicina, e lo si gioca contro il più forte. A proposito di Kissinger, nel 1971 volò in Cina clandestinamente per stabilire rapporti prima informali poi formali con la Repubblica popolare e distanziarla dall’Urss di allora. Oggi gli Stati Uniti dovrebbero fare lo stesso ma a parti invertite, con la Russia nel ruolo della Cina.

Nel contesto di questa guerra, con un’invasione russa che va avanti da tre mesi e nessuno spiraglio di trattativa, come si muoveranno gli Stati Uniti?

Diciamo che durante la Guerra fredda era tutto più semplice, perché le guerre per procura si potevano combattere nei territori esotici, dalla Corea al Vietnam. Oggi il contesto è diverso. Washington pensava dapprima che la guerra finisse velocemente, poi ha capito che la strategia della Russia era fallimentare, infine crede che la Russia possa essere condotta fino all’impasse se non addirittura alla sconfitta. Sono concetti non miei, ma del capo del Pentagono.

Se ciò non accadesse e la Russia uscisse vincitrice, cosa cambierebbe negli equilibri mondiali?

Se la Russia esce vincitrice, anche malandata, di questa guerra, finirà per consegnarsi alla Cina, perché l’Occidente le chiuderebbe la porta in faccia. Di conseguenza la Cina potrebbe approfittarne, prendendo dalla Russia idrocarburi e grano. Se accadesse ciò, significherebbe per gli Stati Uniti trovarsi davanti una Cina più forte che mai. Per questo Washington tenta di piegare Mosca in questa guerra, così da portarla nelle braccia dell’Occidente.

Ha parlato di grano, qual è il rischio derivante dall’impasse delle navi cargo ferme davanti ai porti ucraini?

La Russia sta utilizzando il blocco alimentare, che è una vecchissima tattica di guerra, per piegare la resistenza del governo ucraino ma anche quella dell’Occidente. Da un lato, cerca di mettere in ginocchio l’economia ucraina, che esporta il 10 per cento del grano mondiale, dall’altro preme sull’Occidente perché noi possiamo sostituire con discreta velocità il grano ucraino ma i paesi del Nordafrica e del Levante vivono in buon parte dell’approvvigionamento, specie del grano, che arriva dall’Ucraina. Per fare un esempio, un paese come il Libano importa il 70 per cento del grano dall’Ucraina. Il rischio quindi è l’avvio di insurrezioni, scontri e migrazioni sul nostro fronte Sud, che non è solo nostro ma dell’intero continente europeo.

Zelensky si è lamentato del poco sostegno che arriva dall’Occidente: ha ragione?

Tra Ucraina e Occidente si è creato un legame piuttosto stretto, ma non fortissimo. Lo stesso Macron dice che ci vorranno decenni prima che Kiev entri nell’Ue. Finora, ad esempio, non è stato approvato alcun pacchetto sanzionatorio che includa il petrolio. Se fosse soltanto l’Ungheria a dire no, dovremmo aspettarci una posizione durissima contro Budapest, che invece non si registra da nessuna parte. Credo che alcuni paesi dell’Europa occidentale non siano così dispiaciuti che l’Ungheria faccia ritardare questo passaggio, che significa far ritardare il passaggio successivo, cioè l’embargo sul gas. Un punto di non ritorno al quale molte cancellerie occidentali non vogliono arrivare.