di Lucio Giacomardo*

Sport è vocabolo inglese dall'incerta o quanto meno dubbia etimologia. Secondo una tesi, l'origine sarebbe neolatina, dal desport francese, corrispondente, più o meno, all'italiano "diporto". C'è pure chi, partendo dal notevole sviluppo presso i popoli anglosassoni di tale attività, rivendica alla lingua inglese non solo la maggior diffusione ma l'introduzione stessa del vocabolo. In ogni caso, comunque, tutti concordano sull'origine illustre e remota dell'Educazione Fisica e dello Sport, sì da poter considerare il fenomeno sportivo nato con l'uomo. E tale affermazione non appaia azzardata se messa in relazione ai primitivi bisogni dell'uomo che si allenava nella corsa, nel lancio, nella caccia e nella pesca per potersi procacciare da vivere e, nel contempo, imparare a difendersi efficacemente. La linea di sviluppo dell'idea di sport comincia così lentamente a delinearsi: dalla corsa, il salto, il lancio, ispirati da istinti naturali, si passa ad esercizi più complessi come l'attraversamento di corsi d'acqua, il correre montando su animali solo per il gusto del gioco, del divertimento. Può dunque affermarsi, senza tema di smentite, che lo sport accompagna il corso di epoche storiche. Lo studio della materia rimanda alle manifestazioni in auge presso le antiche civiltà, con la nascita dei giochi pan-ellenici, sino all’istituzione, nel 776 avanti Cristo da parte di Ifito, re di Elide, delle Olimpiadi. Ed è a partire da tale data che, per concorde ammissione, si fa risalire la pratica sportiva organizzata, disciplinata secondo precise regole per lo svolgimento delle gare e per la stessa partecipazione ad esse. È sin troppo semplice affermare che all’epoca erano del tutto sconosciuti concetti quali la distinzione tra dilettantismo e professionismo, la corruzione, gli abbinamenti pubblicitari, le plusvalenze, il doping e la violenza, termini che purtroppo appare oggi quasi "naturale" accoppiare alla pratica sportiva. Anche se, ricercando attentamente, si possono ritrovare di tanto in tanto tracce di episodi che sembrano di scottante attualità, come la violenza negli stadi. Racconta infatti Tacito nel libro XIV degli Annales che all'incirca nel 59 d.C. ci fu una furibonda rissa tra Pompeiani e Nocerini per lo spettacolo di Gladiatori che tale Livineio Regolo organizzava. L'episodio, per quanto riferito dallo storico latino, ebbe una insolita conclusione decretata dal Senato dell'epoca, in veste quasi di Giudice sportivo ante litteram che “squalificò” l'arena per dieci anni e mandò in esilio l'organizzatore Livineio. In una concezione ideale dell’attività sportiva, fondata sul rispetto del principio di lealtà e correttezza che, come condivisibilmente ebbe a scrivere il professor Raffaele Caprioli, "deve ispirare il comportamento dei singoli e dei gruppi nei rapporti con gli altri soggetti della comunità sportiva e nell’applicazione delle regole del gioco” forse non vi sarebbe spazio, se non per la semplice omologazione dei risultati delle competizioni agonistiche, per gli organi di Giustizia sportiva. Viceversa, proprio in ragione della necessità di regolamentare il fenomeno e per la risoluzione delle (troppe?) controversie che insorgono in relazione all’attività sportiva, si è sempre più sentita, anche nel nostra Paese, l’esigenza di organizzare e disciplinare un “sistema” di Giustizia sportiva. Il quale, basato sul piano concettuale sulla teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici sostenuta da autorevole dottrina a partire da Santi Romano, Cesarini Sforza, Massimo Severo Giannini, trova il suo principale riferimento nel cd. ”vincolo di giustizia”, norma presente in tutti gli Statuti delle Federazioni sportive e che il professor Andrea Manzella considerò, in un suo famoso scritto, non come forma di autosospensione della giustizia comune ma, viceversa, zona di riserva originaria, concreta attuazione dell’autonomia affidata ai congegni dell’autodichia. D’altro canto, con una pregevolissima sentenza (n.18919 del 28.9.2005) la Corte di Cassazione, relatrice l’attuale Giudice della Corte Costituzionale San Giorgio, ebbe ad affermare che fondandosi l’autonomia dell’ordinamento sportivo sugli articoli 2 e 18 della Costituzione, il vincolo di giustizia, di natura negoziale, faceva sì che la rinunzia preventiva alla tutela giurisdizionale statuale si basasse sul consenso delle parti, attesa peraltro la natura privatistica delle Federazioni sportive. Vicende legate a provvedimenti disciplinari e ai successivi interventi di diversi Tar, indussero poi il legislatore a intervenire con il Decreto Legge 220, poi convertito con la Legge 280/2003, al fine di delimitare le aree di rispettiva competenza tra Giustizia sportiva e giurisdizione statuale. Tuttavia, nonostante le buone intenzioni del legislatore, non sempre i “confini” sono stati rispettati, con talune decisioni dei Giudici amministrativi che, per usare un gergo sportivo, qualcuno ha ritenuto al limite dell’invasione di campo. Investita della questione di legittimità costituzionale della citata legge 280/2003, per ben due volte la Corte Costituzionale, con le sentenze dell’11 febbraio 2011 n.49 e del 26.6.2019 n. 160, è intervenuta a chiarire limiti e competenze della giurisdizione statuale in materia sportiva. Oggi, soprattutto grazie alla decisione del Coni del 2014 di introdurre un Codice di Giustizia sportiva che può considerarsi il testo di riferimento per l’intero sistema giustiziale sportivo, può affermarsi che per quanto attiene l’attività sportiva esiste un “processo sportivo” con regole che non solo mirano a garantire l’autonomia e la terzietà dei componenti dei vari Organi ma che disciplinano lo svolgimento dei procedimenti secondo quelli che, per richiamare il titolo di una pregevole opera dei professori Piero Sandulli e Mauro Sferrazza, possono definirsi i principi del “giusto processo sportivo”. Intuibili motivi di spazio impediscono, in questa sede, di esaminare nel dettaglio il complesso normativo esistente, ma deve comunque evidenziarsi che oggi, per tutte le discipline sportive, esiste un giudizio endofederale, con Tribunali Federali e Corte di Appello, sia sportive che “federali”, a seconda delle materie di competenza, per taluni sport sia a livello Nazionale che territoriale, ed un giudizio esofederale innanzi al Collegio di Garanzia dello Sport presso il Coni. Con la doverosa precisazione che si utilizza il termine “presso” e non “del” Coni, per rimarcare l’autonomia e l’indipendenza rispetto all’Ente esponenziale dello sport italiano, del citato Collegio di Garanzia dello Sport. Il quale, da giudice di legittimità, è chiamato a svolgere funzioni nomofilattiche. All’interno dell’ordinamento sportivo, sempre per utilizzare una metafora sportiva, la “partita” della giustizia dovrebbe ritenersi conclusa con la pronuncia del Collegio di Garanzia dello Sport. Tuttavia, nei limiti delineati dalle citate sentenze della Corte costituzionale, può sempre invocarsi l’intervento del Tar del Lazio, competente in via esclusiva in relazione a tutti gli atti e provvedimenti del Coni e delle Federazioni Sportive, e del Consiglio di Stato in grado di appello. Un sistema, dunque, fondato su norme, decisioni, sempre più numerosi approfondimenti dottrinari che sembra smentire clamorosamente l’opinione di chi, come il processualista Furno, nel 1952 affermava che vi era totale, intrinseca incompatibilità tra sport e diritto. (*Avvocato, segretario dell’associazione “Sport e Diritto)