La nostra giornata di ieri al Salone internazionale del libro di Torino è iniziata con una chiacchierata del direttore Davide Varì con l’ex Procuratore Gian Carlo Caselli. «Ringrazio il Dubbio perché mi permette per la seconda volta di esporre nel contradditorio le mie idee», ha esordito. Infatti l’ex magistrato è stato nostro ospite anche lo scorso anno ed è tornato a discutere nel salotto del Dubbio a pochi giorni dal trentennale della strage di Capaci. «Appresi dell’accaduto - ci ha raccontato - dalla televisione e subito mi tornò in mente quanto aveva detto Paolo Borsellino, ossia che Falcone cominciò a morire quando il Csm preferì un altro per il posto di primo Procuratore alla Direzione Nazionale Antimafia. Continuo a provare amarezza per non essere riuscito quale membro del Csm ad imporre la scelta su Falcone”». Gli abbiamo chiesto anche una considerazione sul ruolo dei pentiti, a partire dal caso Scarantino: «è un problema complesso, delicato. Sono assolutamente indispensabili per combattere le organizzazioni terroristiche e mafiose che si basano sul segreto». E però non viene dato eccessivo credito alle loro dichiarazioni che molto spesso si rilevano appunto false, come nel caso Tortora? «Non è vero – ha ribattuto Caselli - che quando parla un pentito scatta subito l’incriminazione. Bisogna cercare i riscontri, chi si ferma alla parola dei pentiti non compie il suo dovere professionale. Su Tortora posso andare orgoglioso nel dire che al Csm feci presente che quella indagine era stata condotta male». Sul ruolo dei pentiti oggi: «Si potrebbe dire che non servono perché ci sono le intercettazioni ma è il pentito che sa dove poter piazzare la cimice perché conosce i luoghi degli incontri. Quindi benvenuti ai pentiti. I guai cominciano quando fanno i nomi di personaggi eccellenti. Falcone era un maestro dei rapporti con i pentiti ma in alcune circostanze venne aggredito, accusato di portare i cannoli a Buscetta». Gli abbiamo chiesto, considerato che la questione si intreccia con quella dell’ergastolo ostativo, cosa pensi del fatto che la lotta alla mafia e le ragioni di sicurezza possono limitare i diritti di alcuni detenuti: «Se sanno che potranno accedere ai benefici anche in assenza della collaborazione non parleranno più». Dopo la voce di un magistrato, abbiamo scelto di ascoltare anche quella di un ex detenuto, di Carmelo Musumeci che da meno di un mese dopo aver trascorso 27 anni in carcere è finalmente libero. I nostri lettori conoscono bene Carmelo, che ormai è un noto scrittore che gira l’Italia con la sua maglietta con su scritto «no al fine pena mai». Per Musumeci «il carcere ti rende innocente perché chi ti custodisce è peggio di te”. Eppure è proprio tra i cittadini che prevale il senso di vendetta nei confronti di chi ha sbagliato. Ma Carmelo ci ha partecipato una profonda riflessione che gli fece Agnese Moro: “la sofferenza dei colpevoli non allieve il dolore delle vittime». Per l’ex ergastolano “è l’incontro con la vittima che fa venire il senso di colpa in chi ha sbagliato, non la guardia che ti chiude in cella e casomai ti picchia”. La società non crede nel rieducazione e nel mutamento dei reclusi: «Tutti possono cambiare ma questo va spiegato alle persone che purtroppo non sono informate, per questo scatta il pregiudizio nei confronti degli ex detenuti». Alcuni vorrebbero risolvere il ‘ problema’ rintroducendo la pena di morte. E paradossalmente Musumeci ha concluso: “meglio la pena di morte ad un ergastolo, ad un carcere senza fine, dove dinanzi a te non hai alcuna speranza”. Il terzo appuntamento della giornata ha visto la nostra Francesca Spasiano intervistare la presidente del Coa di Torino, avvocata Simona Grabbi, sulla figura di Lidia Poët, prima avvocata del Regno d’Italia iscritta all’Albo di Torino nel 1883. Quindi rimossa subito dopo per volontà della Corte d’Appello, e infine riammessa nel 1920 dopo una lunga battaglia. Dopo aver ripercorso il tortuoso cammino della Poet per rivendicare il diritto ad esercitare la professione si è arrivati a far emergere le criticità che affrontano oggi le donne all’interno della professione forense, a cominciare dalle disparità salariale: «le donne avvocato guadagnano la metà dei colleghi uomini. Mentre all’inizio della carriera si parte tutti con lo stesso reddito, dopo poco il reddito degli avvocati uomini comincia a crescere in maniera esponenziale. E poi c’è da segnalare che le donne cominciano a lasciare la professione quando si cominciano ad avvertire le difficoltà della gestione del lavoro insieme agli impegni familiari”.  
  La giornata si è conclusa con una intervista al filosofo Massimo Cacciari con il quale abbiamo discusso di biopolitica, soprattutto declinata sui temi del fine vita e della maternità surrogata. Sul primo versante Cacciari è totalmente favorevole all’eutanasia e trova anche incomprensibile che una legge passa normare chi può accedervi e chi no. “Perché un malato di Sla potrebbe avere questo diritto e una persona depressa no?”. Critica invece la posizione del filosofo sul tema della gestazione per altri: «sono d’accordo con la pratica solidale, se una donna decide di portare avanti la gravidanza per un’altra donna per amore o amicizia non ci vedo nulla di male. Al contrario non condivido affatto quella a pagamento: non può essere un mestiere essere una madre. Ogni forma di mercificazione è l’inferno». I nostri appuntamenti di oggi al salone: alle 10: 30 “2022 Fuga dall’avvocatura”, 12: 15 confronto tra Monsignor Paglia e Chiari Lalli, 15: 30 “Processare Putin?”.