Ergastolo ostativo, l’attendismo della Consulta indebolisce giurisdizione e Parlamento
Continuiamo a preferire, per contrastare le mafie, che sia un giudice a valutare se sussistono ancora legami tra il singolo e l'antica associazione mafiosa di appartenenza
In Italia vige il diritto dell’emergenza, il diritto delle soluzioni tampone che poi si ossificano nell’ordinamento nella loro peggiore versione testuale e applicativa, soprattutto (ma non solo) in materia penale. L’attività legislativa appena ieri l’altro e oggi – da ieri – una decretazione esecutiva sovente di dubbia copertura costituzionale sono concepite sempre più spesso dalla classe politico parlamentare e politico- governativa come forme di risposta estemporanea ad esigenze dell’opinione pubblica largamente eterodirette dalle ondate di allarmismi e di attenzione mediatica, a intervalli irregolari.
Tra le tante emergenze presunte che sono state proposte al dibattito collettivo negli ultimi tre decenni, una vera e concreta ha impattato il funzionamento e gli orientamenti giurisprudenziali della Corte costituzionale. Davanti a un legislatore non di rado allo sbando, a turno tardivo o pedante nell’esecuzione degli obblighi internazionali, infelice sul nudo piano lessicale che dovrebbe essere la base di buone norme, sempre incerto sulla strada da percorrere per lusingare fiammate di consenso, il giudice delle leggi ha sempre più frequentemente dovuto rivolgere moniti a ‘ tempo’ alle Camere. Decidere entro un tot, procedere secondo una direzione, addivenire alla riforma della disposizione sospetta di incostituzionalità.
Lo abbiamo visto, con disperanti lungaggini e situazioni giurisprudenziali troppo segmentate e mal amalgamate tra loro, in materia di istigazione o aiuto al suicidio, in particolar modo con la sentenza n. 242 del 2019, che ha tentato di colmare il ritardo e l’inadeguatezza legislativi, essendo il nostro diritto, in materia di fine vita, fermo alle disposizioni anticipate di trattamento di cui alla legge n. 219 del 2017.
Nihil novi sub Sole, è il caso di dire, se ci spostiamo a parlare della nuova “patata bollente”, già in corso di raffreddamento: l’ergastolo ostativo di cui all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Sin dal 15 aprile del 2021 la Corte aveva assegnato termine congruo – un anno! – affinché le Camere provvedessero. L’ergastolo ostativo, l’ergastolo che sempre esclude l’attribuzione di un regime beneficiale ( il quale non è il tana liberi tutti ma una semplice rimodulazione dei modi di esecuzione della pena), è in palese contrasto rispetto alla disciplina costituzionale e finanche codicistica della pena medesima. Non ha possibilità rieducative, sottrae un segmento importante del diritto penitenziario alla possibilità di un sindacato giurisdizionale.
La Corte si impuntava appropriatamente sul fatto che l’ostatività non potesse essere vincolata alla mancanza di collaborazione in sede giudiziaria: quante collaborazioni avevano poco o nulla di genuino e soprattutto di processualmente affidabile? Come si può sanzionare la mancanza di collaborazione in contesti nei quali essa rischierebbe di sovraesporre il collaborante a fenomeni ritorsivi, e non soltanto a danno della propria persona? Davvero questo solo indice può accertare lo scioglimento di ogni legame con l’organizzazione mafiosa? E dalla eventuale collaborazione, magari dopo decenni di detenzione, possono poi giungere elementi precisi e di stretta attualità? Storia non breve e non così minoritaria del nostro diritto dimostra, certo, l’utilità investigativa di un contributo di collaborazione non motivato da meri meccanismi di delazione e promozionalità, ma anche la piena operatività in seno all’associazione mafiosa di soggetti formalmente e strumentalmente collaboranti. Le Camere a modo loro c’avevano provato.
Ne erano emersi, tra i vari solo genericamente discussi e tra i tre presentati, due testi che, pur attuando in modo molto soft le indicazioni della Corte, cercavano di tradurne l’impianto a maggioranze politiche componibili ( ci riferiamo a quelli degli onorevoli Della Vedova e Bruno Bossio). Il testo unificato finito in commissione ci sembra una versione depotenziata e non troppo ben coordinata rispetto a quanto si era detto in sede di lavori.
Oggi la Corte costituzionale assegna al Parlamento altri sei mesi: siamo, per questa fase della nostra giustizia costituzionale, al tempo del decisionismo attendista. L’autorevole Presidente Amato ha nel suo curriculum scientifico trattazioni giuridiche importanti sulla doverosità di certe garanzie secondo criteri inflessibili di legalità costituzionale – non è mistero, ad esempio, in materia di libertà di domicilio, che fosse in quella dottrina che con, tra gli altri, i Pace e i Barile, perorava una nozione estensiva e tuzioristica di domicilio.
Il profilo sembrava quello giusto per mettere a sistema tanti dossier, a cominciare dai referendum, sui quali la Corte è però sembrata fare un doppio salto carpiato. Ha prima lodato un giudizio ermeneutico- valoriale in tema di ammissibilità, chiaramente sostanzialistico, per far partecipare e votare i cittadini, poi dichiarando inammissibili i tre referendum di maggiore presa collettiva (in materia di droghe leggere, suicidio assistito, responsabilità civile dei magistrati). Oggi si dice che l’ergastolo ostativo – la decisione ultima sul se e come superarlo – spetta a quello stesso, inattuoso, Parlamento, anche perché le ragioni della lotta alla mafia impongono adeguata ponderazione. E ci mancherebbe pure di operare alla leggera, come sembrava in più punti e almeno in prima stesura il nostro codice antimafia ( invero, un testo unico, reso attraverso il decreto legislativo n. 159 del 2011).
L’ostatività, se pure pensata contro le mafie, in realtà è ormai caratteristica di un ventaglio ampio dei reati, che a prescindere da tutto sono riconosciuti non meritevoli di qualsivoglia regime penitenziario che non sia solo carcerario. L’ostatività che oggi patiscono gli ergastolani all’art. 4 bis rischia di favorire le mafie: crea simulacri di uomini d’onore e rende gli ergastolani ostativi – minima parte dei detenuti per fatti di mafia, peraltro – perfettamente divisi tra chi se ne fa un vanto e chi ne subisce l’ingiustizia. Continuiamo a preferire, per contrastare le mafie, che sia un giudice a valutare se sussistono ancora legami tra il singolo e l’antica associazione mafiosa di appartenenza. Sulla base ( ùsi spera) di criteri più democraticamente ed efficacemente sostenibili di una astratta noluntas a collaborare. (*professore a contratto di Diritto e religioni nell’Università Magna Graecia di Catanzaro **avvocato, segretario Camera Penale ‘ Cantafora’ – Catanzaro)
Ergastolo ostativo, l’attendismo della Consulta indebolisce giurisdizione e Parlamento
di Domenico Bilotti e Francesco Iacopino
In Italia vige il diritto dell’emergenza, il diritto delle soluzioni tampone che poi si ossificano nell’ordinamento nella loro peggiore versione testuale e applicativa, soprattutto (ma non solo) in materia penale. L’attività legislativa appena ieri l’altro e oggi – da ieri – una decretazione esecutiva sovente di dubbia copertura costituzionale sono concepite sempre più spesso dalla classe politico parlamentare e politico- governativa come forme di risposta estemporanea ad esigenze dell’opinione pubblica largamente eterodirette dalle ondate di allarmismi e di attenzione mediatica, a intervalli irregolari.
Tra le tante emergenze presunte che sono state proposte al dibattito collettivo negli ultimi tre decenni, una vera e concreta ha impattato il funzionamento e gli orientamenti giurisprudenziali della Corte costituzionale. Davanti a un legislatore non di rado allo sbando, a turno tardivo o pedante nell’esecuzione degli obblighi internazionali, infelice sul nudo piano lessicale che dovrebbe essere la base di buone norme, sempre incerto sulla strada da percorrere per lusingare fiammate di consenso, il giudice delle leggi ha sempre più frequentemente dovuto rivolgere moniti a ‘ tempo’ alle Camere. Decidere entro un tot, procedere secondo una direzione, addivenire alla riforma della disposizione sospetta di incostituzionalità.
Lo abbiamo visto, con disperanti lungaggini e situazioni giurisprudenziali troppo segmentate e mal amalgamate tra loro, in materia di istigazione o aiuto al suicidio, in particolar modo con la sentenza n. 242 del 2019, che ha tentato di colmare il ritardo e l’inadeguatezza legislativi, essendo il nostro diritto, in materia di fine vita, fermo alle disposizioni anticipate di trattamento di cui alla legge n. 219 del 2017.
Nihil novi sub Sole, è il caso di dire, se ci spostiamo a parlare della nuova “patata bollente”, già in corso di raffreddamento: l’ergastolo ostativo di cui all’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Sin dal 15 aprile del 2021 la Corte aveva assegnato termine congruo – un anno! – affinché le Camere provvedessero. L’ergastolo ostativo, l’ergastolo che sempre esclude l’attribuzione di un regime beneficiale ( il quale non è il tana liberi tutti ma una semplice rimodulazione dei modi di esecuzione della pena), è in palese contrasto rispetto alla disciplina costituzionale e finanche codicistica della pena medesima. Non ha possibilità rieducative, sottrae un segmento importante del diritto penitenziario alla possibilità di un sindacato giurisdizionale.
La Corte si impuntava appropriatamente sul fatto che l’ostatività non potesse essere vincolata alla mancanza di collaborazione in sede giudiziaria: quante collaborazioni avevano poco o nulla di genuino e soprattutto di processualmente affidabile? Come si può sanzionare la mancanza di collaborazione in contesti nei quali essa rischierebbe di sovraesporre il collaborante a fenomeni ritorsivi, e non soltanto a danno della propria persona? Davvero questo solo indice può accertare lo scioglimento di ogni legame con l’organizzazione mafiosa? E dalla eventuale collaborazione, magari dopo decenni di detenzione, possono poi giungere elementi precisi e di stretta attualità? Storia non breve e non così minoritaria del nostro diritto dimostra, certo, l’utilità investigativa di un contributo di collaborazione non motivato da meri meccanismi di delazione e promozionalità, ma anche la piena operatività in seno all’associazione mafiosa di soggetti formalmente e strumentalmente collaboranti. Le Camere a modo loro c’avevano provato.
Ne erano emersi, tra i vari solo genericamente discussi e tra i tre presentati, due testi che, pur attuando in modo molto soft le indicazioni della Corte, cercavano di tradurne l’impianto a maggioranze politiche componibili ( ci riferiamo a quelli degli onorevoli Della Vedova e Bruno Bossio). Il testo unificato finito in commissione ci sembra una versione depotenziata e non troppo ben coordinata rispetto a quanto si era detto in sede di lavori.
Oggi la Corte costituzionale assegna al Parlamento altri sei mesi: siamo, per questa fase della nostra giustizia costituzionale, al tempo del decisionismo attendista. L’autorevole Presidente Amato ha nel suo curriculum scientifico trattazioni giuridiche importanti sulla doverosità di certe garanzie secondo criteri inflessibili di legalità costituzionale – non è mistero, ad esempio, in materia di libertà di domicilio, che fosse in quella dottrina che con, tra gli altri, i Pace e i Barile, perorava una nozione estensiva e tuzioristica di domicilio.
Il profilo sembrava quello giusto per mettere a sistema tanti dossier, a cominciare dai referendum, sui quali la Corte è però sembrata fare un doppio salto carpiato. Ha prima lodato un giudizio ermeneutico- valoriale in tema di ammissibilità, chiaramente sostanzialistico, per far partecipare e votare i cittadini, poi dichiarando inammissibili i tre referendum di maggiore presa collettiva (in materia di droghe leggere, suicidio assistito, responsabilità civile dei magistrati). Oggi si dice che l’ergastolo ostativo – la decisione ultima sul se e come superarlo – spetta a quello stesso, inattuoso, Parlamento, anche perché le ragioni della lotta alla mafia impongono adeguata ponderazione. E ci mancherebbe pure di operare alla leggera, come sembrava in più punti e almeno in prima stesura il nostro codice antimafia ( invero, un testo unico, reso attraverso il decreto legislativo n. 159 del 2011).
L’ostatività, se pure pensata contro le mafie, in realtà è ormai caratteristica di un ventaglio ampio dei reati, che a prescindere da tutto sono riconosciuti non meritevoli di qualsivoglia regime penitenziario che non sia solo carcerario. L’ostatività che oggi patiscono gli ergastolani all’art. 4 bis rischia di favorire le mafie: crea simulacri di uomini d’onore e rende gli ergastolani ostativi – minima parte dei detenuti per fatti di mafia, peraltro – perfettamente divisi tra chi se ne fa un vanto e chi ne subisce l’ingiustizia. Continuiamo a preferire, per contrastare le mafie, che sia un giudice a valutare se sussistono ancora legami tra il singolo e l’antica associazione mafiosa di appartenenza. Sulla base ( ùsi spera) di criteri più democraticamente ed efficacemente sostenibili di una astratta noluntas a collaborare. (*professore a contratto di Diritto e religioni nell’Università Magna Graecia di Catanzaro **avvocato, segretario Camera Penale ‘ Cantafora’ – Catanzaro)
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