Nessun elemento concreto può indurre a ritenere «che la dottoressa Giangamboni e la dottoressa Ciliberto, per il solo fatto di essere iscritte all’Anm, come quasi la totalità dei magistrati italiani, appaiano in qualche modo non imparziali nei confronti dell’imputato». La Corte d’Appello di Perugia ha rigettato l’istanza di ricusazione avanzata dalla difesa dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, a processo a Perugia per corruzione. Un rigetto che ricalca sostanzialmente la memoria presentata dall’Anm - ma ritenuta inammissibile perché presentata fuori tempo massimo - e quella della procura generale, secondo cui i valori dell’Anm sono i valori di tutti i magistrati e, dunque, potenzialmente chiunque potrebbe sentirsi parte in causa, secondo il ragionamento della difesa.

Secondo gli avvocati Benedetto Buratti e Roberto Rampioni, Palamara non può essere infatti giudicato dalle giudici Carla Maria Giangamboni e Serena Ciliberto in quanto iscritte all’Anm, che ha chiesto di costituirsi parte civile al processo e di farsi risarcire dal suo ex presidente per i danni morali causati dal suo comportamento. Un «palese» conflitto di interessi, secondo la difesa, che ha per settimane inseguito il presidente del sindacato delle toghe, Giuseppe Santalucia, chiedendo di conoscere l’elenco degli iscritti e valutare un’eventuale situazione di incompatibilità, richiesta alla quale Santalucia si era opposto per questione di privacy. Alla fine erano state le stesse giudici a confermare la loro iscrizione all’Anm, chiedendo di potersi astenere dal processo e, dunque, avallando i dubbi della difesa.

Ma il Tribunale ha respinto quella richiesta, “costringendo” Palamara a presentare istanza di ricusazione. Secondo il collegio presieduto da Claudia Matteini, però, «sotto il profilo dell’imparzialità soggettiva nessuna prova è stata portata rispetto ad eventuali convinzioni preconcette, né la loro appartenenza all’Anm, che ha come scopo l’affermazione dei principi costituzionali dell’ordinamento giudiziario, può rappresentare un vulnus nell’ambito del procedimento in oggetto, tenuto conto che la tutela di detti valori è propria non solo del singolo magistrato ma di tutti i cittadini che formano la società civile».

La Corte d’Appello ha anche escluso un ipotetico vantaggio economico per le giudici, qualora si arrivasse ad un risarcimento dell’Anm, ricalcando di fatto la tesi del sindacato delle toghe. Che essendo un’associazione senza fini di lucro, non prevede «alcuna distribuzione di utili né diretta né indiretta, tra l’altro vietata». Il patrimonio dell’Associazione è dunque destinato a realizzare gli scopi della stessa, «rappresentati dalla tutela dei valori costituzionali dell’ordine giudiziario e dalla promozione dei valori di legalità, ma certamente non apporta alcun vantaggio economico al singolo associato».

Nemmeno in caso di eventuale scioglimento, dato che tutti i fondi sarebbero devoluti all’istituto di previdenza. «Il magistrato iscritto alla stessa Associazione può avere nel procedimento in oggetto solo ed esclusivamente un interesse ideologico rappresentato dall’affermazione dei valori fondanti l'ordinamento giudiziario, ovverosia l’autonomia e l’indipendenza della magistratura che sono, poi, anche i valori posti alla base della imparzialità e terzietà nelle decisioni, tutti valori enunciati dalla Costituzione e sui quali si fonda il giuramento che ciascun magistrato pronuncia all’inizio della sua carriera», si legge nella motivazione. E, dunque, non ci sarebbe motivo di ritenere le due giudici parti in causa nel processo. Contro la decisione, i difensori di Palamara hanno annunciato ricorso in Cassazione. «Siamo già al lavoro, faremo valere le violazioni dei principi di diritto nazionali e sovranazionali», hanno annunciato Buratti e Rampioni. Per la difesa sono stati infatti «violati i principi della Cedu sulla imparzialità dei giudici che fanno parte della stessa associazione sistematicamente ostile a Palamara, con il rischio di condizionamento dell’attività dei giudici».