Approda in aula per uscirne con la velocità delle porte girevoli. S'intende il presidenzialismo, «madre di tutte le riforme» come lo definisce Giorgia Meloni, che proprio la leader di FdI ha voluto portare in Parlamento pur sapendo di non avere alcuna chance di vittoria. Poco male: non è quel che le interessa. C'è un calcolo politico a breve, riunire l'intero centrodestra sotto quello che è forse oggi l'unico vessillo comune, brandito da lei stesa come comandante in capo. C'è una visione più strategica: porre quanto più rumorosamente possibile la questione oggi per poi affrontarla con ben altre possibilità di vittoria nella prossima legislatura, quando il centrodestra immagina di essere maggioritario.

Non è un calcolo sbagliato. Errata, in compenso, continua a essere la disposizione d'animo con la quale l'intera politica affronta una revisione, palesemente necessaria da ormai tre decenni, dell'intera architettura istituzionale. Lo sguardo è puntualmente miope, concentrato più sulla prossima scadenza elettorale piuttosto che su un orizzonte ampio e una prospettiva di lungo periodo, attento più alla resa propagandistica della bandiera sventolata che non all'efficienza del sistema.

Per una ventina d'anni l'Italia ha fatto finta di eleggere direttamente il capo del governo. I partiti sono andati alle urne coalizzati indicando il loro candidato premier. Solo che così non era e il corto circuito diventava pertanto inevitabile. Non solo perché il capo del governo, essendo stato eletto direttamente solo per finta, poteva poi tranquillamente essere sostituito, come è capitato più volte, ma anche perché, essendo l'elezione diretta posticcia e tuttavia spacciata per vera agli elettori, non ci si poteva neppure porre il problema di rendere l'intero sistema omogeneo e funzionale.

La finzione poteva reggere solo in un quadro almeno tendenzialmente bipolarista. È quindi franata quando le elezioni del 2013 hanno chiarito che del più o meno solido bipolarismo italiano non restava più nulla. Il sistema ha sterzato quindi verso una direzione proporzionalista anch'essa però posticcia o quanto meno negata in radice da una legge elettorale che cercava di imporre le coalizioni al Senato. Il risultato è stato la giostra impazzita dell'ultima legislatura. Come al solito però l'impegno proclamato con toni stentorei a inizio legislatura di voler rapidamente modificare la legge elettorale è stato disatteso.

L'Italia è un Paese con architettura istituzionale sbilenca sin dal 1993 ma è anche un Paese privo di una vera legge elettorale dal 2006. Sono gli argomenti forti e dettati dalla realtà su cui scommettono i paladini del presidenzialismo, e avrebbero anche ragione se le forze politiche fossero disposte a prendere sul serio una riforma che richiederebbe di rivedere l'intero sistema istituzionale, dal sistema dei pesi e contrappesi che è l'essenza della democrazia al ruolo e alle prerogative del Parlamento. Va da sé che si tratta di un compito che richiede anni e collaborazione di tutti, non di una faccenda da sbrigare con la logica superficiale del blitz. Un discorso se non identico molto simile vale però per un compiuto ritorno al proporzionale, che non è solo un sistema elettorale ma una logica di sistema. Il dibattito su una legge proporzionalista non potrebbe limitarsi a una zuffa sulla soglia di sbarramento, come è successo nelle rare occasioni in cui i partiti ne hanno parlato dal 2018 a oggi. Andrebbe ripensato l'intero funzionamento del sistema, dall'introduzione della sfiducia costruttiva alla regolamentazione della decretazione d'urgenza e del voto di fiducia.

Il presidenzialismo presuppone la disponibilità a riscrivere le regole in modo da adeguare la democrazia parlamentare a un sistema in cui la centralità non appartiene più neppure di nome al Parlamento. Il proporzionalismo, per funzionare, richiede il ritorno a una vera e compiuta democrazia parlamentare.

Si tratta di modelli entrambi assolutamente democratici però opposti e che richiedono architetture istituzionali profondamente diverse. Il dovere di forze politiche degne dell'altisonante nome, nella prossima legislatura sarebbe scegliere un modello, e se non ne sono capaci farlo scegliere con un referendum ai diretti interessati, e poi lavorare per adeguare a quel modello l'intero sistema. Non è cosa che si possa fare negli ultimi scampoli di una legislatura imbizzarrita, con le elezioni alle porte e la campagna elettorale di fatto già iniziata.