La vita negli istituti penitenziari e dietro le sbarre viene spesso dimenticata. Una realtà che tante volte il mondo esterno con la sua frenesia, le sue distrazioni e le sue normalità - alcune presunte -, tende ad ignorare (volutamente); tende a tenere lontano per lavarsi la coscienza, mettendo del tutto su un secondo piano il principio di umanità della pena. Quest’ultimo non è un concetto astratto e buonista, ma trova piena cittadinanza nell’articolo 3 della Cedu e ha un obiettivo preciso: garantire il rispetto e la tutela della integrità fisica del condannato. Il libro intitolato La ferita della pena e la sua cura. Spunti e testimonianze per una rimeditazione del trattamento penitenziario (Ed. Paolo Loffredo), curato da Cristina Gobbi (già ricercatrice in Diritto penale nell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”) e Marta Mengozzi (ricercatrice confermata in Istituzioni di Diritto Pubblico presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”) accende i riflettori sul mondo carcerario e offre un contributo sulla rimeditazione del trattamento penitenziario. È un argomento su cui si discute spesso, a più livelli, con il coinvolgimento di istituzioni diverse, ma solo nei momenti di drammatica eccezionalità viene posta la giusta attenzione dell’opinione pubblica. Oltre a Cristina Gobbi e Marta Mengozzi, il volume contiene i contributi di Filippo Rigano, Irene Baccarini, Cosimo Rega, Cristina Pace, Giovanni Colonia, Laura Capraro, Fabio Falbo, Francesca Fernanda Aversa, Juan Dario Bonetti, Anna D’Acuti, Fabio Falbo, Luisa Di Bagno, Giuseppe Gambacorta, Giuseppe Perrone. Lo studio rientra nel progetto di ricerca e formazione finanziato dalla “Fondazione Terzo Pilastro Internazionale” e condotto nell’Università di Roma “Tor Vergata”, sotto la responsabilità della professoressa Marina Formica, «con l’obiettivo di ampliare il livello di consapevolezza e di conoscenza nella gestione delle complessità che si manifestano nella fase del trattamento penitenziario, utilizzando un approccio interdisciplinare». «Nella vicinanza concreta con il carcere evidenziano le curatrici Gobbi e Mengozzi abbiamo toccato con mano che la pena è sofferenza. Da qui, in mancanza di un radicale ripensamento dell’istituzione carceraria, che sembra impraticabile nella prospettiva di breve periodo, l’esigenza di interrogarci sui possibili modi di curare la ferita prodotta dalla pena, quantomeno per alleviare il dolore, renderlo sopportabile o farne un’occasione di rinascita, riflettendo su un diverso o più ampio uso degli strumenti di cui già oggi disponiamo. Gli elementi potenzialmente idonei a questo scopo sono moltissimi, tanti quanti le direzioni cui può rivolgersi la creatività e la curiosità della mente umana, perché da ogni interesse e da ogni attività possono scaturire spinte di rinnovamento e sarebbe impossibile farne una rassegna esaustiva» Cristina Gobbi si sofferma sulla connessione tra il fatto e la pena, ponendo l’attenzione sulla giusta commisurazione della seconda. «Il fatto di reato – afferma - rimane il punto di partenza della pena ed allo stesso modo la pena trova il suo limite nella descrizione del fatto, nell’ampiezza dell’offesa al bene giuridico tutelato e nella colpevolezza soggettiva, dato che la pena “giusta” non può non essere commisurata alla colpevolezza, nella ricerca di una proporzione, che, necessariamente, deve caratterizzare la dimensione della pena, anche per temperarne il connaturale carattere retributivo. Ne consegue che le teorie sulla pena sono intimamente connesse alle teorie sul reato e si fondano sugli stessi principi, primo fra tutti il principio di legalità, che si estende, per espressa previsione costituzionale, alle conseguenze giuridiche necessarie del reato (così come alle misure di sicurezza).Dunque, l’intervento afflittivo, che si svolge nelle forme dell’esecuzione penale, necessita della previsione di un reato ad opera di una legge e di una pena che segua negli stessi termini». Gobbi pone l’accento sull’esigenza di considerare il diritto penale che privilegia la garanzia rispetto alla repressione. La premessa è l’inviolabilità della libertà personale, «intesa, in negativo, contro le interferenze abusive e, in senso positivo, come facoltà di fare ciò che non è espressamente oggetto di divieto». In tale contesto si inserisce il diritto penale garantista, dove il potere di punire fa un passo indietro rispetto alle «istanze tipiche della democrazia». «Il garantismo – sostiene Gobbi - vuole una volontà debole di punire perché la pena, per come ancora oggi è declinata, è sofferenza. In un sistema di tal fatta, non si devono infliggere sofferenze oltre la necessità e il diritto penale deve rappresentare l’ultima tra le alternative possibili, deve cioè imporsi come necessità, come extrema ratio». Come è possibile mantenere il contatto con il mondo esterno dall’interno del carcere? A questa e ad altre domande risponde Marta Mengozzi, affrontando la questione dell’istruzione di chi è privato della libertà. Questo tema, scrive, «si trova all’intersezione tra molteplici diposizioni della Carta, incrociandosi qui, da un lato, tutte le previsioni connesse allo stato di detenzione, tra le quali emergono la finalizzazione rieducativa delle pene e il divieto che queste siano contrarie al senso di umanità (articolo 27, comma 3, della Costituzione) e, dall’altro, le norme che attengono in termini più generali al ruolo e alla disciplina costituzionale del sistema di istruzione». Ritornare a studiare in carcere rappresenta uno dei primi affacci al mondo esterno con la speranza di viverlo in maniera diversa e con un nuovo protagonismo.