Carmelo Musumeci è finalmente libero. Parliamo di uno dei rarissimi casi di ergastolano ostativo che ha ricevuto la piena libertà dopo un lungo percorso, tortuoso, che l’ha portato a ottenere prima la libertà condizionale, infine l’estinzione della pena grazie all’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Perugia. Ma come ci spiegherà, è una eccezione che conferma la regola. Non solo. Ora è pronto a chiedere la revisione del processo. Ha commesso diversi crimini che mai ha nascosto, ma è stato condannato per un omicidio avvenuto nel 1991 nella località di Massa Carrara che lui dice di non aver commesso. Dietro c’è una vicenda che è da ricercare nel connubio tra l’allora boss mafioso Antonino Buscemi e la società calcestruzzi Ferruzzi Gardini che operava nelle cave di Carrara. Una vicenda che si ricollega alle indagini degli ex Ros di Palermo coordinate da Giovanni Falcone. Indagini che dettero vita allo scottante dossier mafia-appalti, poi attenzionato anche da Paolo Borsellino. Ma questa è una storia che prossimamente si dovrà affrontare Musumeci, lei è stato uno dei primi a definire l’ergastolo ostativo, una “pena senza fine”. Ma tre anni fa è riuscito a ottenere la liberazione condizionale e ora la libertà. Per trent’anni sono stato un condannato alla “pena di morte viva”: così gli uomini ombra chiamano la pena dell’ergastolo ostativo. Per più di un quarto di secolo la mia vita è stata una non-vita perché gli ergastolani ostativi non vivono, ma sopravvivono ed è terribile non essere né vivi né morti. L’ergastolo ostativo è una pena senza fine, senza nessuna possibilità di liberazione, a meno che al tuo posto in cella non ci metti qualcun altro. In altre parole, se parli e confessi puoi uscire, altrimenti stai dentro fino all’ultimo dei tuoi giorni, come nel Medioevo. La nostra pena assomiglia a una morte al rallentatore, bevuta a gocce perché moriamo un po’ tutti i giorni e tutti le notti. Se a me non è capitato è perché sono l’eccezione che conferma la regola e con l’estinzione della mia pena da parte del Tribunale di Sorveglianza di Perugia continuo ad esserlo ancora. Ha sempre detto che fin da giovanissimo è sempre stato in guerra contro il mondo. Perché? Potrei giustificarmi affermando che sono diventato un criminale perché mentre molte persone perbene sono nate fra pasticcini e biscotti, io sono nato in una casa dove non c’erano libri (probabilmente perché non erano buoni da mangiare). Potrei giustificarmi dicendo che sono stato quello che sono potuto essere e non quello che avrei voluto essere. Potrei dare la colpa delle mie scelte criminali alla mia infanzia infelice o alle botte che ho preso prima in collegio dalle suore e dai preti e subito dopo nelle carceri minorili (a soli quindici anni sono stato legato al letto di contenzione per sette giorni). Io, però, preferisco non darmi nessuna attenuante perché, come dico spesso: “sono nato colpevole poi io ci ho messo del mio per diventarlo”. In “Zanna Blu. Le nuove avventure”, uno dei suoi primi libri, scrive che “più che amare Dio, bisogna amare i lupi, anche quelli più cattivi, perché se tu credi che un lupo non sia mai perduto per sempre, lo stai già aiutando a essere migliore”. Parla di quello che è accaduto anche a lei durante la carcerazione? È il libro che amo più di tutti perché sono i racconti che non ho mai potuto raccontare ai miei figli prima e dopo ai miei nipoti. Se mi limitassi a guardare solo carcere, posso dire che non solo mi ha peggiorato, ma mi ha anche fatto tanto male. Ciò che mi ha migliorato e cambiato non è stato certo il carcere, ma l’amore della mia compagna, dei miei due figli, le relazioni sociali e umane che in tutti questi anni mi sono creato, insieme alla lettura di migliaia di libri di cui mi sono sempre circondato, anche nei momenti di privazione assoluta. Lei è nato in Sicilia, ma è vissuto altrove. Faceva parte di una banda, ma che nulla aveva a che fare con Cosa nostra. Forse l’ha aiutata il fatto che era un ribelle? Quanto questa sua indole si è scontrata con l’istituzione carceraria e, soprattutto, con i boss mafiosi reclusi? Mi sono sempre considerato un “Senza Dio”. E mi sono spesso definito un ribelle sociale. Ho sempre detto di no a tutti. A volte anche a me stesso. Sia fuori che dentro ho sempre detto di no alla mafia e alla loro cultura. Spesso mi sono anche scontrato con loro in carcere perché storcevano il naso che lottavo e scrivevo per l’applicazione dei miei diritti e di quelli dei miei compagni. Dentro mi sono sempre trovato tra questi due fuochi: lo Stato e la mafia, tutti e due volevano domarmi, non credo che ci siano riusciti. I periodi migliori in carcere li ho passati coi brigatisti: avevano cultura e umanità. Loro il carcere dell’Asinara l’avevano distrutto, nel 1978, perché sapevano unirsi e lottare. Molti mafiosi, invece, non vogliono o non lo sanno fare. Alla fine è riuscito a diventare portavoce della disperazione. Oserei dire “Spes contra Spem”. Da avere speranza, lei è riuscito a essere la speranza. Ne è consapevole? Non lo so. L’ergastolano se vuole vivere più serenamente deve sperare di morire prima del tempo io invece ho scelto di vivere e lottare. Facciamo un passo indietro. Lei nel 1991 è stato condannato all’ergastolo ostativo. Dopo le stragi di mafia, sono state riaperte le carceri speciali ed è stato trasferito all’Asinara. Ha subito torture anche lei? E chi è che non le ha subite? Dopo i primi giorni avvenne il primo pestaggio: quando si usciva all’aria gli sgherri erano tutti allineati con i manganelli tra le mani. Un compagno anziano, lento nei movimenti, rimasto indietro, venne preso a calci, pugni e manganellate. Sentivamo urla strazianti. Al ritorno vedemmo tutto il sangue sparso nel corridoio, ma noi eravamo troppo impauriti per potergli dare la nostra solidarietà. E quella nostra debolezza fu l’inizio della fine, perché fatti del genere in seguito si ripeterono sovente. In quel periodo imparai a conoscermi, a crescere dentro, scoprii che lo Stato era peggiore di quel che credevo: mi faceva conoscere privazioni, torture e patimenti, nell’assenza totale di legalità, giustizia e umanità. In quella maledetta isola persino i gabbiani erano infelici per quello che vedevano. Forse per questo da quel lager in un anno uscirono 42 collaboratori di giustizia. Ha sempre detto di essere stato “cattivo” e ha commesso gravi sbagli nella vita. Ha scontato l’ergastolo ostativo, un lungo periodo di 41 bis e torture nelle carceri speciali. Ha commesso davvero il crimine per il quale lei è stato condannato? C’è grande differenza fra la verità vera e quella processuale. Specialmente nei processi di mafia sovente vieni condannato per sentito dire o a causa di collaboratori che usano la giustizia per uscire dal carcere. Spesso vieni condannato perché sei culturalmente mafioso e non perché sei colpevole del reato di cui sei accusato. Nel mio caso sono stato assolto per dei reati che ho fatto e condannato all’ergastolo per un omicidio che non ho commesso. Non lo dico io ma un famoso pentito di mafia (Angelo Siino, scomparso recentemente e definito “ministro dei lavori pubblici di Totò Riina”, ndr), con delle dichiarazioni fatte alla Procura di Palermo: mi scagiona per questo omicidio, ma purtroppo queste dichiarazioni prima sono state segretate e poi sono sparite. Adesso che sono un uomo libero, per amore di verità, chiederò la revisione. Mi sono laureato in carcere in Giurisprudenza per questo.