Dopo decenni di inerzia legislativa, cade l’ultimo retaggio patriarcale del diritto di famiglia. E ad abbatterlo è stata la Consulta, che con la pronuncia di oggi ha garantito ai genitori il diritto di dare ai propri figli il cognome della madre, diritto finora negato dall’articolo 262 del codice civile. La Corte presieduta da Giuliano Amato ha infatti stabilito che è «discriminatoria e lesiva dell’identità del figlio la regola che attribuisce automaticamente il cognome del padre». E a questa decisione si è arrivati dopo 34 anni di inerzia legislativa, dopo la decisione della Corte costituzionale numero 176 del 1988 che, pur dichiarando inammissibili le questioni, aveva aperto alla possibilità di sostituire la regola vigente «con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi», anziché «avvalersi dell’autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell’altro». Quell’invito al legislatore rimase inascoltato. Ma oggi il giudice delle leggi, che a gennaio dello scorso anno ha deciso di sollevare davanti a se stesso la questione costituzionale, ha dichiarato l’illegittimità di quell’automatismo, in contrasto con gli articoli 2, 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per la Corte, dunque, «entrambi i genitori devono poter condividere la scelta» sul cognome, «elemento fondamentale dell’identità personale». In mancanza di accordo sull’ordine di attribuzione del cognome di entrambi i genitori, resta salvo l’intervento del giudice in conformità con quanto dispone l’ordinamento giuridico. Ed ora la palla passa al legislatore, cui spetta il compito, afferma la Consulta, di «regolare tutti gli aspetti connessi alla presente decisione». Sono due le vicende che hanno portato a quella che già viene definita «una sentenza storica». Il primo caso è quello sollevato dal Tribunale di Bolzano, relativo ad una coppia che voleva dare alla figlia - nata fuori dal matrimonio - il solo cognome della madre, che meglio si accordava col nome scelto. Ma ad impedirlo era appunto l’articolo 262 del codice civile, secondo cui «il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto» e «se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori il figlio assume il cognome del padre». Il secondo caso, invece, è quello sollevato dal Tribunale di Potenza, ed investe in maniera ancora più importante l’interesse del minore e dell’omogeneità del gruppo familiare. La vicenda riguarda infatti il rifiuto opposto dal Comune alla richiesta di due coniugi di attribuire al figlio minore il solo cognome della madre, scelta motivata dal fatto che le due sorelle del piccolo, nate prima del matrimonio, portano il solo cognome materno, essendo state riconosciute solo successivamente dal padre. Da qui la volontà di garantire al bambino la possibilità di crescere in un nucleo familiare omogeneo: cambiare cognome alle sorelle significherebbe infatti stravolgere la loro identità. «La scelta - si legge nella memoria dell’avvocato e consigliere del Consiglio nazionale forense Giampaolo Brienza, coadiuvato dall’avvocato Domenico Pittella - non è motivata da un “capriccio”, ma dall’esigenza di prendere la migliore decisione nell’interesse» del bambino «e degli altri figli». Ancor prima di una violazione del principio di eguaglianza tra i coniugi, infatti, ad essere violato sarebbe «il diritto dei fanciulli alla propria identità, alla pari dignità e all’unitarietà familiare». E la Consulta ha dato loro ragione. «La Corte Costituzionale, con la storica pronuncia, dà tutela effettiva alla vita privata e familiare ponendo fine alla ingiusta ingerenza che lo Stato finiva per esercitare sui componenti la famiglia - ha commentato Brienza -. Infatti nel nostro tempo, in un mondo globalizzato, si vede il concetto di famiglia uscire fuori dai canoni tradizionali, assumendo diverse e nuove forme. La società in continua evoluzione trova oggi al suo fianco il diritto, che con essa pure si evolve. Così in piena applicazione dell’articolo 8 della Cedu la Corte Costituzionale, ponendo in essere tutto quanto necessario per facilitare la tutela della vita privata e familiare, rende lo Stato italiano moderno, facendo sì che tutti i membri di una famiglia se ne sentano parte. Così l’Italia, Stato membro dell’Unione europea, acquista una visione proiettata nel futuro verso una piena armonizzazione con gli altri Stati membri». Si tratta, insomma, di «una piccola rivoluzione». L’iter che ha portato alla decisione parte da lontano. Dopo la pronuncia del 1998, infatti, la Consulta nel 2006, con la sentenza numero 61, aveva rimarcato come a distanza di 18 anni «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia», frutto «di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna». L’ultima pronuncia, quella del 2016, ha segnato un ulteriore passo in avanti, garantendo la possibilità del doppio cognome e sancendo «l’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare». Ma a pronunciarsi in merito è stata anche la Cedu, che nel 2014, con la sentenza “Cusan e Fazzo contro Italia”, ha censurato l’impossibilità di attribuire il solo cognome materno, stabilendo la violazione dell’articolo 14 (divieto di discriminazione) e dell’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata e familiare), a causa di una lacuna del sistema giuridico italiano. Il legislatore, però, è rimasto inerte. Le proposte non mancano: in Senato è infatti depositato un disegno di legge a prima firma della capogruppo del M5S in commissione Cultura, Danila De Lucia, ma ce ne sono altri presentati da quasi tutti i partiti, compreso il Pd, che per voce della presidente dei senatori Simona Malpezzi, ha espresso soddisfazione, ma anche amarezza perché, «per l’ennesima volta, la Corte è arrivata prima del legislatore. Ora chiediamo al presidente della commissione Giustizia Ostellari che si adoperi perché il provvedimento venga approvato rapidamente e in piena aderenza a quanto stabilito dalla Corte». E a replicare, a stretto giro, è stato proprio Andrea Ostellari: «Il ddl è già stato incardinato e l’iter della Commissione Giustizia prevede che ora si svolgano le audizioni. La senatrice Malpezzi, se ritiene la questione effettivamente prioritaria, si adoperi per accelerare i lavori. Da parte nostra non ci sono preclusioni». Ma la sentenza «merita un’attenta analisi».