Pochi lo ricordano. Era il 2004. Una settimana a Natale. Il governo Berlusconi più longevo della serie era da poco riuscito a ottenere in Parlamento il sì definitivo alla riforma della giustizia, a prima firma del guardasigilli Roberto Castelli. A Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica, non tornavano però diversi passaggi del testo. Decise di rinviarlo alle Camere. Ciampi si avvalse della facoltà di chiedere una nuova deliberazione in virtù di quattro aspetti della legge delega, da lui ritenuti critici. Il secondo riguardava l’istituzione di un “Ufficio per il monitoraggio dell’esito dei procedimenti”. Una norma del tutto simile a quanto previsto con il “fascicolo di valutazione” all’interno del ddl Cartabia,  che domani a Montecitorio dovrebbe ottenere il primo sospirato sì in Aula. Ebbene, il Capo dello Stato dell’epoca costrinse il governo Berlusconi a rimangiarsi il monitoraggio: dopo il rinvio, fu cancellato. Si trattava di una verifica sull’esito dei procedimenti, relativa solo al penale, finalizzata a “verificare l’eventuale sussistenza di rilevanti livelli di infondatezza giudiziariamente accertata della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell’azione penale o con mezzi di impugnazione ovvero di annullamento di sentenze per carenze o distorsioni della motivazione, ovvero di altre situazioni inequivocabilmente rivelatrici di carenze professionali”. Era insomma un tentativo di individuare casi di clamoroso abuso dell’azione penale da parte dei pm e delle decisioni assunte dai giudici.  Casi clamorosi, non ordinari, visto che la norma evocava appunto “rilevanti livelli di infondatezza”. Niente. Il Quirinale non la fece passare. Obiettò testualmente nella lettera alle Camere che uno screening sulle abnormità di pm e giudici penali sarebbe stato in contrasto con più articoli della Costituzione. Soprattutto, secondo Ciampi ne sarebbe derivato «un grave condizionamento dei magistrati nell’esercizio delle loro funzioni». In particolare «il riferimento alla possibilità di verificare livelli di infondatezza “della pretesa punitiva manifestata con l’esercizio dell' azione penale”» avrebbe integrato «una ulteriore violazione» del principio di obbligatorietà sancito all’articolo 112 della Carta. La premessa è lunga, certo, ma necessaria. Serve a misurare il grado di novità contenuto nella riforma del Csm. Parte della politica, e non solo, giudica il testo di Marta Cartabia insufficiente. A dirlo è non solo l’opposizione di Fratelli d’Italia ma anche una forza molto attiva sul fronte giustizia come l’Italia Viva di Renzi. Stamattina, in una cruciale intervista al Giornale radio Rai, il togato Nino Di Matteo ha detto che la la legge delega oscilla fra l’inutile e il dannoso (oltre a chiarire, con la consueta trasparenza, di non condividere lo sciopero ventilato dall’Anm). Eppure, questa tanto vituperata riforma Cartabia contiene tra le altre cose una norma come quella sul “fascicolo di valutazione” con cui si subordinano progressioni di carriera dei magistrati e incarichi direttivi a un meccanismo di controllo che Ciampi, nel 2004, mandò al macero. Stavolta il testo sembra rivisto in modo da non urtare con la Costituzione. Sergio Mattarella non dovrebbe restituire al mittente un ddl delega che ha sollecitato in tutti i modi possibili. Davvero una scelta politica del genere può essere liquidata come irrilevante, inutile o dannosa, come sostenuto ieri da Di Matteo e per settimane dalla Anm? È uno dei risvolti sui quali si dovrebbe riflettere, prima di dare addosso a Cartabia. Ieri la ministra della Giustizia è stata applaudita a Reggio Emilia, dove ha tenuto il proprio discorso per la Festa della Liberazione. C’è da chiedersi se il consenso che questa presidente emerita della Consulta sembra suscitare tra i cittadini, se la sua immagine di figura super partes e sinceramente devota a un preciso orizzonte di principi debbano davvero capovolgersi in vituperio quando se ne valutano le scelte di politica giudiziaria.