Per capire il reale stato di salute della sua maggioranza Mario Draghi farebbe bene a tastare il polso di Matteo Renzi. Sì, perché nonostante i numeri risicati di Italia viva in Parlamento, un eventuale indisposizione dell’ex premier potrebbe sempre provocare colpi di scena inattesi. Ne sa qualcosa Matteo Salvini, fregato dall’improvvisa disponibilità del senatore di Rignano sull’Arno a far nascere un governo “giallo- rosso” con Giuseppe Conte, e ne sa qualcosa lo stesso avvocato pentastellato, prima blindato a Palazzo Chigi e poi disarcionato proprio da Renzi. Per questo il presidente del Consiglio dovrebbe ascoltare con attenzione l’insofferenza palesemente manifestata da Iv sulla riforma del Csm.

A confronto gli strepiti del centrodestra sul fisco e sul catasto sono solo capricci da aggirare con uno zuccherino. E infatti se a Matteo Salvini e Antonio Tajani è bastato un fugace colloquio col premier per seppellire in un battito di ciglia l’ascia di guerra, Renzi non sembra affatto disposto a fare passi indietro e in caso di questione di fiducia in Parlamento non ha problemi ad annunciare: «Ci asterremo».

Ma è il tono con cui per la prima volta l’ex premier si scaglia contro il governo di cui fa parte (e di cui rivendica la paternità) che dovrebbe far drizzare le antenne a Draghi: la riforma del Csm è un «pannicello caldo, anzi tiepido», va ripetendo Renzi da due giorni. «L’azione di Bonafede era dannosa, quella della Cartabia semplicemente inutile. Dunque, un grande passo in avanti. Ma il vero problema dello strapotere delle correnti e del fatto che chi sbaglia non paga mai, con la riforma Cartabia non si risolve», è la sentenza inappellabile pronunciata dal capo di Italia viva. Che dopo aver bastonato sul provvedimento della Guardasigilli, si affretta comunque a garantire il sostegno al governo fino a fine legislatura. L’esecutivo «va avanti, va avanti bene. C’è una guerra, ci sono i soldi del Pnrr da spendere, c’è da chiudere l’emergenza legata alla salute. Poi su alcune cose non tutti sono d’accordo ma noi siamo assolutamente dalla parte di Mario Draghi».

Del resto, da anni ormai Renzi utilizza la tecnica del bastone e della carota con i governi che decide di sostenere. Fece così persino con Conte nel giugno del 2020, quando, dopo una serie di battibecchi con l’avvocato dichiarò placidamente: «Sono d’accordo con le cose dette da Conte al 95 per cento. Credo che la legislatura finirà nel 2023». Non solo: «Abbiamo un'ottima squadra di governo, auguro al presidente del Consiglio e ai ministri di lavorare bene». Di lì a qualche mese Italia viva si sfilerà dalla maggioranza. Certo, la storia non si ripete mai con un identico copione Mario Draghi non è Giuseppe Conte e la crisi ucraina non permette salti nel buio - ma quando il fu segretario del Pd comincia a scalpitare, quel dimenarsi non dovrebbe mai essere preso sottogamba. Non fosse altro perché un movimento di Renzi potrebbe essere letto come un segnale di smobilitazione da parte degli altri partner di governo, abituati a quelle mosse del cavallo inattese che ad oggi hanno deciso il destino degli ultimi tre esecutivi.

E forse non è un caso che adesso, come nel 2020, davanti a un governo sordo alle richieste imprescindibili di Italia viva, il senatore di Rignano torni a parlare del suo più grande cruccio politico: il presidenzialismo. «Questa legislatura è iniziata sul principio sovranista e finisce con l’ex- capo della Bce presidente del Consiglio, dopo tre maggioranze diverse», è la premessa dell’intervento al convegno sul “sindaco d’Italia” organizzato ieri da Iv al Senato. «Può continuare a esistere un modello nel quale si vota e al voto non corrisponde una conseguenza sull’esecutivo? In questo senso l’idea del presidenzialismo è un elemento su cui vogliamo riflettere».

Anche in questo caso, parole del tutto simili a quelle pronunciate due anni fa dopo le prime schermaglie con Conte (seguite da rassicurazioni di stabilità fino al 2023): «Credo sia giunto il momento di prendere il coraggio a due mani, di accettare la sfida e introdurre l'elezione diretta del presidente della Repubblica o del presidente del Consiglio dei ministri. Si tratta di modificare la Costituzione per consentire ai cittadini di decidere se, come e quando affidare il destino del proprio paese». L’argomento, considerato prioritario fin dai tempi in cui Renzi sedeva a Palazzo Chigi, a quanto pare rispunta sempre nei momenti di difficoltà, come una manifestazione identitaria da sventolare in cielo per farsi riconoscere. Forse Draghi dovrebbe alzare lo sguardo.