Ora non si dica che Letizia Battaglia è “scomparsa”. La morte è morte, e lei che aveva passato troppo tempo a guardarla, alzava gli occhi al cielo e sbuffava, se qualcuno tentava di camuffarla. Molte altre erano le cose che potevano farla infuriare: i premi, le celebrazioni, la retorica vuota. Le cose tragiche «ridotte a piccola sagra», persino il sorriso che «confonde le emozioni sul viso, le nasconde». «Non ridete!», gridava dietro l’obiettivo della sua Leica. Si trattava per lei di pescare un frammento e lasciare che qualche volta accadesse il «miracolo»: bisognava restare seri. Seri e impegnati, certo, ma con sberleffo. «Sono nata come persona solamente quando avevo trentanove anni: è stata la fotografia a reinventarmi come donna, a darmi un’identità, un’autonomia, a farmi superare timori e ostacoli. È stata la macchina fotografica, arrivata nelle mie mani un po’ per caso, un po’ per necessità, che ha aperto le porte di quella prigione interiore in cui ero rimasta intrappolata», ha scritto lei stessa nel libro “Mi prendo il mondo ovunque sia”, un’autobiografia a quattro mani con la giornalista Sabrina Pisu. La premessa s’intitola “Picchì idda?”, perché lei, in siciliano. E dietro c’è un buffo aneddoto che la riassume: quando nel 2012 la stampa annunciò finalmente la realizzazione del Centro Internazionale di Fotografia a Palermo, la sua “bambina” più preziosa, una giornalista ebbe a dire - «perché proprio Letizia Battaglia a dirigerlo?». Così lei, Letizia, decise di farne una scritta al neon da appendere al muro nel Centro. «A questa domanda rispondo con il mio impegno», spiegò. Ma la cosa curiosa è che fu proprio lei l’ultima a scoprire di essere un’artista. Guardi una sua foto e lo intuisci subito. Ma a lei era servita quasi metà della sua vita. E noi ci sbagliavamo tutti, perché Letizia Battaglia non si sentiva solamente una fotografa. Ha fatto molto altro, prima e dopo l’impegno politico e il lavoro al giornale L’ora. Né si sentiva una “fotografa della mafia”, come diceva la stampa: semmai «contro la mafia», precisava ogni volta. Leica e sigaretta alla mano, i suoi unici arnesi da autodidatta, era partita dalla disperazione di Diane Arbus, la fotografa statunitense che l’aveva ispirata, per poi trovare la disperazione della Sicilia e non lasciarla mai più. Una parentesi a Milano, per tentare la strada del giornalismo, poi un anno in Francia, a Parigi. Ma lontana da Palermo non ci poteva stare. Neanche all’alba degli anni ‘80, quando sulla città si era abbattuta la carneficina dei corleonesi, la cosiddetta Seconda guerra di mafia, che culminerà nelle strage di Capaci e Via d’Amelio. «Di questa notte senza fine palermitana, Letizia Battaglia è testimone coraggiosa e affranta», dice il regista e amico Franco Maresco, che meglio di tutti l’ha rappresentata nel film del 2019 “La mafia non è più quella di una volta”. «Ho detto a Franco, accetto solo se mi fai fare la parte della vecchia buttana». Ma prima c’era da raccontare la lotta alla mafia: nel 2019 ha 84 anni, caschetto rosa e sguardo beffardo, ma si sente ancora arrabbiata, offesa, umiliata per quelle sfilate di politici e istituzioni che ogni anno ricordano la morte di Falcone e Borsellino, per poi lasciare che torni il silenzio. «Io non sono scettica, non mi piacciono le parate: ci manca solo l’odore di maiale arrostito», diceva lei che in ossequioso silenzio restava soltanto davanti al dolore degli altri. Qui non c’è spazio per raccontare tutto ciò che ha realizzato, prima donna europea a ricevere nel 1985 il Premio Eugene Smith, a New York, che l’ha consacrata tra i maestri di fotografia del Novecento. «Il successo mi stupisce, qualche buona fotografia non mi sembra sufficiente a giustificarlo». Ma fu più di qualche suo scatto a fare il giro del mondo. Compreso quello con cui aveva ritratto Giulio Andreotti all’uscita dell’Hotel Zagarella con Nino Salvo. O quello con cui aveva documentato l’omicidio di Piersanti Mattarella, quando il 6 gennaio 1980 fu la prima fotoreporter ad arrivare sul posto. Convivere con la mafia le aveva fatto male, ammetteva: «Io volevo che le mie fotografie fossero un atto di denuncia, non so se sono servite a qualcosa ma, in ogni caso, non è stato sufficiente». Ma il suo non è soltanto un archivio di sangue. Da “bambina indomabile”, quale si definiva, si era accorta che con la fotografia poteva raccontare anche se stessa, e cercare l’innocenza e la bellezza. Un’innocenza che aveva trovato nelle bambine, come la “bambina con il pallone”, nell’età «in cui i sogni sono in bilico». «Dopo le fotografie dell’orrore, mi sono voluta dedicare a ritrarre le donne nude per come sono, non per come gli uomini le vorrebbero». Battaglia di nome e di fatto: voleva rendere le donne «selvagge come le piante», fuori dagli schemi e dai ruoli. Ecco il valore sociale del suo lavoro: quei nudi tradivano una nuova battaglia, una sfida contro la società patriarcale. Ma ora che Letizia Battaglia è morta, dicevamo, non si dica che è “scomparsa”. «Non vorrei mai essere appesa come questi con un vestito vecchio di cento anni», disse in visita alle catacombe dei cappuccini a Palermo insieme all’amico e fotografo Franco Zecchin. Letizia resta, eccome, ma senza nessuna etichetta.