«Lo chiede al presidente della Corte o a me, al professore?...». Giuliano Amato introduce la sua conferenza stampa, il lungo dialogo in cui si intrattiene con i cronisti dopo aver presentato la Relazione annuale, con un rovesciamento di ruoli. È lui, il vertice della Consulta, che rilancia la domanda al giornalista. E che rivela così di essere sospeso fra due dimensioni: la veste di presidente della Corte costituzionale non rende giustizia alla sua pulsione per l’immediatezza. Amato sta per illustrare le cornici in cui la Carta definisce l’impegno militare dell’Italia, quando chiede appunto in quale veste deve rispondere, ma il suo tono spesso più da professore appassionato che da giudice delle leggi prevale nettamente per l’intera mattinata.

E la maratona di Amato parte con la Relazione sull’attività della Consulta nel 2021, esposta dinanzi al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e ad altre cariche dello Stato, tra le quali c’è naturalmente la guardasigilli Marta Cartabia. Nel report sull’anno trascorso, Amato si produce in un continuo distacco dalla formalità della versione scritta, fitta di statistiche ma troppo limitante, eccezion fatta per la lettura delle ultime due pagine, in cui il presidente della Corte si sofferma sulle «preoccupazioni per la tenuta degli ordinamenti costituzionali europei» di fronte alla guerra (aspetto sul quale trovate ampio resoconto in altra parte del giornale, ndr).

Ma Amato quasi si sforza di aprirsi uno spazio sui «diritti sociali», e in particolare su penale e carcere. Già nella Relazione cita una sentenza emessa dalla Corte nel 2021, la numero 137, relativa ai «condannati per delitti di grave allarme sociale, come mafia e terrorismo» che, «se ammessi a scontare la pena ai domiciliari anziché in carcere e bisognosi di sostegni economici, non possono essere esclusi da misure come l’assegno sociale o la pensione di invalidità».

Ricorda, il presidente Amato che, «non si può ritenere un soggetto meritevole di accedere ai domiciliari per poi privarlo dei mezzi per vivere fuori dal carcere». Altro esempio è il «genitore condannato in passato per reati contro la persona» che «è illegittimo escludere dal diritto alla casa», tanto più se gli è richiesto «l’onere di accudire i figli». Dedica un ampio passaggio alla sentenza 150, relativa al carcere per i giornalisti che per la Corte è ammissibile «solo nei casi di eccezionale gravità». E qui il vertice della Consulta si concede una più che legittima autocelebrazione: «Fortunata l’Italia che ha una Corte pronta a scrivere con successo queste cose».

Si soffermerà di nuovo sul carcere, Amato, non senza aver rilevato «i limiti che la Corte inevitabilmente incontra rispetto ad alcune lacune normative, come sulle Rems, dove sono accolti coloro dei quali si accerta, nel processo penale, una sofferenza per problemi mentali: i posti in tali strutture sono solo 600, a noi la questione è stata sottoposta da un giudice in relazione al mancato coinvolgimento del ministero della Giustizia. Ma ecco, lì abbiamo deciso di rivolgerci al legislatore perché riordinasse l’intera materia ben oltre tale difetto: non potevamo provvedere noi».

Finché, interpellato dal Dubbio sull’eterno conflitto fra garantisti e giustizialisti, Amato sembra sollevato dal poter dire cosa ne pensa: «La Corte può favore in vari modi un’attenzione alla necessità di assicurare tutela e garanzie a tutti. Ad avere bisogno di veder riconosciuti i propri diritti in genere non è chi ha si accomoda nei salotti e vive bene: capita più spesso che i diritti siano nei guai quando sono di persone che si trovano nei guai, o che hanno creato guai ad altri, ma che pure sono titolari di diritti».

Un modo meravigliosamente lieve per introdurre la questione della mafia e dell’ergastolo ostativo: «Possiamo citare Hannah Arendt e il suo pro memoria sul diritto ad avere diritti, che appartiene a qualunque essere umano. Naturalmente serve un bilanciamento con altri interessi tutelati dalla Costituzione, a cominciare dalla sicurezza».

Bilanciamento che però non basta a placare i dissensi. «Come si chiamano quelli che si oppongono ai garantisti», chiede Amato, «giustizialisti? Ecco, capita che le nostre decisioni possano risultare loro sgradite...». Cita di nuovo la sentenza su assegni di pensione e invalidità che spettano anche ai detenuti di mafia (il presidente tiene a ricordare di esserne stato il relatore e di aver notato «i titoli critici di alcuni giornali») e arriva appunto all’ordinanza 97 del 2021 sull’ergastolo: «La collaborazione con la giustizia non può essere, per chi è in regime ostativo e chiede i benefici penitenziari, l’unica prova del distacco dall’organizzazione criminale». Certo, «piuttosto che applicare in tali casi le regole ordinarie, noi diciamo al Parlamento: stabilisci tu le norme necessarie a garantire anche la sicurezza».

Poco dopo il presidente della Corte è sollecitato sul rischio di essere additati come collusi (o quasi) a cui sono esposti coloro che invocano l’umanità della pena anche per i mafiosi, come il nuovo capo del Dap Carlo Renoldi o l’attuale presidente Anm Giuseppe Santalucia, autore, da giudice di Cassazione, dell’atto di promovimento sull’ergastolo. «Come se ne esce? Innanzitutto con uno Stato che tenga conto anche delle sensibilità più attente al rigore. In Parlamento si è detto che la legge sull’ergastolo da noi richiesta avrebbe dovuto escludere dai benefici chi è al 41 bis: ma il 41 bis si applica proprio a coloro che ancora sono ritenuti in rapporto con la mafia, dunque è di per sé preclusivo rispetto alla liberazione. Dopodiché mi chiedo: che senso ha impedire a chi è al 41 bis di cucinare? Si rafforza la lotta alla mafia, se si toglie al mafioso detenuto al 41 bis una delle poche soddisfazioni che può ancora togliersi?». A chi è favorevole al fine pena mai, incalza Amato, «si dovrebbe chiedere se è consapevole che in tutti i Paesi la recidiva è assai superiore per coloro i quali non hanno usufruito di trattamenti rieducativi e di benefici penitenziari».

Amato di solito non passa per un cultore delle questioni penali, eppure offre una straordinaria lezione garantista. Nella sua giornata non manca il pro memoria su un 2021 in cui il covid ha innescato sia «il processo costituzionale telematico» che le «pronunce sulle misure relative alla pandemia». A cominciare dalla sentenza numero 37 in cui il quesito era, dice il presidente, «ma questi dpcm sono espressione dell’esercizio improprio di una delega legislativa?». E la risposta è stata no, com’è noto. Non mancano i dati, relativi innanzitutto al numero delle decisioni, 263 contro le 281 del 2020. Variano le statistiche sui tempi delle pronunce, ridotti per quelle assunte «in via principale», a esempio per i conflitti fra Stato e Regioni: 351 giorni contro i 372 dell’anno prima. Di sicuro, nella giornata clou della Corte, non manca la capacità di affacciarsi su un Paese in cui, come dice Amato, «le posizioni si radicalizzano», dalla giustizia alla guerra, ma che trova nella Consulta un punto fermo ancora più indispensabile.