Riportiamo di seguito un estratto dalla prefazione di Sergio D’Elia al libro “Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia”, a cura di Pietro Cavallotti, Lorenzo Ceva Valla e Miriam Romeo. Il volume raccoglie le storie degli abusi e degli errori giudiziari commessi nel campo delle misure di prevenzione antimafia ed è pubblicato da Nessuno tocchi Caino, l’associazione di cui Sergio D’Elia è tesoriere, con Reality book e il Riformista. Quest’anno ricorre il trentennale della “dichiarazione di guerra” dell’Italia alla mafia e del relativo “stato di emergenza”. È una ricorrenza triste per il nostro Paese, per uno Stato democratico di diritto, per la Costituzione più bella del mondo. Quando uno stato di guerra e di emergenza – l’armamentario di leggi, misure, procedure e apparati speciali – dura da oltre un quarto di secolo, se è vero come è vero che la durata è la forma delle cose, quello Stato diventa, tecnicamente, un Regime. Illiberale, antidemocratico, violento. Il regime fascista di emergenza, in fondo, è durato “solo” un Ventennio. Il regime democratico di emergenza antimafia dura ormai da un Trentennio. In questi tre decenni, nel nome della guerra santa alla mafia, abbiamo assistito a un rovesciamento dei principi sacri, delle norme universali, delle regole fondamentali dello Stato di Diritto. Gli stessi processi e castighi penali, troppo garantisti e dagli esiti incerti, sono stati soppiantati da processi e castighi sommari, immediati e più distruttivi, quelli delle misure di prevenzione, dei sequestri e delle confische personali e patrimoniali.     Le informazioni interdittive antimafia, le black e le white list stilate dai Prefetti, hanno stravolto il sistema di trasparenza e libera concorrenza e imposto il controllo di fatto sull’economia degli organi di governo sul territorio. Con lo scioglimento per mafia i Comuni sono stati commissariati dalle Prefetture, le istituzioni rappresentative di base sono state sospese e umiliate dal potere centrale. Un capitolo, anzi, un libro a parte, meriterebbe il tema del sistema penale e penitenziario. Nella “guerra alla mafia” si è perso totalmente il lume della ragione nel giudicare i delitti e ogni senso di umanità nel trattare le pene. La morte di Totò Riina, avvenuta in regime di 41-bis dopo una lunga malattia, è solo un esempio di uno Stato che ha abolito la pena di morte, ma non la morte per pena e la pena fino alla morte. Non sono pochi i detenuti al 41-bis che sono sottoposti al regime speciale di isolamento, ininterrottamente, da quando è stato istituito nel 1992 e che, come Provenzano, Riina, Cutolo, rischiano di morire nelle mani dello Stato. Nella fossa comune dei sepolti vivi scavata sotto il monumento simbolo della lotta alla mafia, il “carcere duro”, che è la quintessenza mortifera del carcere, dell’isolamento, della privazione della libertà (...).Questo libro non tratta di questo, si “limita” a trattare del “sistema di prevenzione” che nella lotta alla mafia si è progressivamente sostituito al sistema di repressione penale. Perché, nella logica contorta, autoreferenziale, dell’Antimafia, si è sperimentato che prevenire è meglio… perché è più difficile reprimere. La repressione presuppone che vi siano un rito, un processo, un gioco delle parti, regole da rispettare: accusa, difesa, giudice, prove, controprove, sentenze e appelli fino all’ultimo grado di giudizio. Un lusso, un rito, quello del “giusto processo”, che la lotta alla mafia non si può permettere, soprattutto in uno stato di emergenza. Perciò, è meglio “prevenire”. Questo libro racconta, quindi, storie di imprenditori estranei alla mafia e “condannati” da informazioni interdittive e misure di prevenzione “antimafia”. Volto a contrastare i tentativi di infiltrazione criminale nel tessuto economico e sociale, nel corso del tempo questo sistema ha sempre più mostrato modalità e finalità inquisitorie. Al di fuori e contro un serio ed effettivo controllo giurisdizionale e di trasparenza pubblica, sulla base di un semplice sospetto e in assenza di fatti concreti o comportamenti specifici di tipo criminale, tali misure hanno provocato effetti devastanti sulla vita di persone e imprese sospettate di essere contigue al crimine organizzato. (...). Le storie che qui raccontiamo di imprenditori proposti o interdetti e di Sindaci sciolti per mafia svelano un dominio arbitrario, pieno e incontrollato degli organi decisionali, degli apparati giudiziari, di controllo e di sicurezza. Si dice che tutto questo strapotere è necessario perché di fronte c’è il male assoluto e il fine di combatterlo giustifica ogni mezzo. Anche se i mezzi che lo Stato usa a fin di bene assomigliano molto ai mezzi usati dall’anti- stato a fin di male. Anche se è la fine dello Stato di Diritto e vige lo Stato di sospetto, trionfa lo Stato di polizia e ritorna lo Stato dei Prefetti d’epoca fascista. Luigi Einaudi è stato il primo, dopo di lui anche Marco Pannella, a chiedere l’abolizione dei Prefetti, protesi in ogni territorio del potere accentratore e di occupazione manu militari dello Stato, soprattutto nelle regioni del Sud. Sarebbe un provvedimento sempre più necessario e urgente che, però, i democratici fasulli dello Stato di Diritto e i finti federalisti si guardano bene dal proporre. Gli “stati di emergenza” sono innanzitutto stati mentali, stati – letteralmente – “reazionari”. In essi, a ben vedere, quel che emerge è lo Stato, e le sue strutture materiali, pesanti, militari, repressive, violente. Ma c’è un altro modo di intendere e concepire la risposta dello Stato alla mafia e alle varie emergenze: è anch’esso uno stato mentale, ma più ordinato ed elevato. Questo stato mentale armonico e orientato ai valori umani è quello che noi definiamo “Stato di Diritto”, uno Stato in cui a emergere è la Coscienza, non il Potere, un Ordine in cui ad emergere non è la violenza, ma la legge, il diritto, i diritti umani universali. Come diceva Leonardo Sciascia, la mafia si combatte non con la terribilità ma con il Diritto. Invece, per trent’anni, alla terribilità della mafia si è risposto con una terribilità uguale e contraria. (...) Negli ultimi anni, con le Carovane per la Giustizia del Partito Radicale e il Viaggio della Speranza di Nessuno tocchi Caino, abbiamo attraversato la Calabria, la Puglia e la Sicilia. (...) Alla fine di questo nostro viaggio senza fine, perché il fine è il viaggio stesso, l’invenire, lo scoprire nella ricerca, quel che abbiamo ritrovato è la speranza e il coraggio: non la speranza che “si ha” che le cose cambino, ma la speranza che “si è” del cambiamento; non il coraggio di chi non ha paura, ma di chi ha il cuore di agire (questo significa, poi, la parola “coraggio”). Siamo consapevoli che il potere con cui abbiamo a che fare non ha fondamenta solide, perché non si basa su diritto, coscienza e verità, si fonda solo su pezzi di carta e pregiudizi, informative e sospetti. Che questo potere non è poi così potente, è solo prepotente e, a ben vedere, impotente. Che un tale “disordine costituito in legge” può durare solo finché durano paura, sfiducia e rassegnazione. Se, invece, noi diamo corpo alla speranza al di là di ogni speranza, se siamo innanzitutto noi il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, allora, una nuova realtà, una nuova legge, un nuovo ordine li abbiamo già creati.