L’8 marzo quest’anno ha il volto di Olga. E di chi come lei, con il cuore in Ucraina e un tetto in Italia, non condivide la Festa perché le donne sono in guerra. «In casa siamo in lutto. Io e le mie figlie ci sentiamo in colpa: non possiamo permetterci di ridere e scherzare», racconta quando la raggiungiamo al telefono. Olga ha 41 anni, e da quindici vive e lavora a Reggio Calabria, come assistente in uno studio di commercialista. Da appena una settimana l’ha raggiunta sua madre: lunedì scorso ha lasciato l’Ucraina con uno di quegli autobus colmi di donne, anziani e bambini che dal centro di raccolta di Leopoli partono verso l’Italia. Per arrivare in Calabria ci sono voluti tre giorni. Sua madre aveva con sé un po’ di cibo, racconta, da condividere con chi scappa sprovvisto di tutto. Ma dietro di sé ha lasciato un’intera famiglia. Come la sorella di Olga e i suoi figli, o i suoi cugini che, giovanissimi, si sono uniti ai combattimenti. «Non facciamo che piangere tutto il giorno, mentre viviamo questo incubo improvviso e inaspettato…», spiega ancora Olga. Non immaginava che il conflitto esplodesse davvero. Non immaginava di ritrovarsi con il cuore in gola mentre sua madre, anziana, si precipitava in Calabria. E continua a ritenersi fortunata, una privilegiata. Impotente di fronte ai racconti di sua madre, che dopo aver vissuto un viaggio straziante, le ha parlato di donne e bambini che non hanno nessuno qui ad aspettarli.Nelle sue parole si legge la frustrazione e la rabbia di un’intera comunità, la più grande d’Europa, di oltre 240mila ucraini residenti in Italia. Di cui 190mila sono donne, lavoratrici, protagoniste in questi giorni di una straordinaria mobilitazione. Parliamo di una rete di accoglienza che garantisce sicurezza a migliaia di persone in fuga — 17.286 i cittadini ucraini entrati in Italia dall’inizio del conflitto, secondo le stime del Viminale, di cui 8.608 donne, 1.682 uomini e 6.996 minori — grazie a un movimento di solidarietà spontanea senza precedenti. Come è forse senza precedenti l’effetto di questa guerra che spezza e disgrega le famiglie di civili al confine, dove padri e mariti accompagnano figli e mogli per poi tornare indietro e unirsi alla resistenza. Secondo le stime dell’Unhcr, l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, sono oltre 1 milione e 700mila le persone che hanno lasciato l’Ucraina dall’inizio del conflitto per cercare riparo nei paesi vicini o ricongiungersi con i parenti in Europa. Un esodo destinato a crescere — il più significativo movimento di migranti forzati registrato in Europa dalla Seconda Guerra mondiale — sorretto dalla solidarietà: di chi accoglie e di chi torna indietro, in Ucraina, per difendere il fronte. «Molti vogliono combattere — ci racconta un avvocato dell’Unhcr — e ogni giorno li vediamo con i nostri occhi separarsi dai propri affetti alla frontiera». Gli uomini certo, ma anche le donne: quelle arruolate rappresentano circa il 15% delle forze armate. Molte altre in questi giorni imbracciano un’arma e si improvvisano combattenti, oppure sostengono la resistenza con ogni mezzo possibile. Altre ancora sfidano i bombardamenti per salire sul primo autobus e portare in salvo i figli. In Italia, quando possibile, o in Ucraina, nelle città dove le bombe non sono ancora arrivate. Come nel caso di Irina, che insieme ai suoi bimbi piccolissimi — uno di sei, l’altro di un anno e un mese — ha lasciato Kiev non appena è esploso il conflitto. «Sono partita all’alba — racconta — portando con me solo i documenti e qualche pannolino. Ho lasciato Kiev per raggiungere i miei genitori in macchina, fuori dalla città, ma poi la guerra è arrivata anche lì». Il 28 febbraio, quattro giorni dopo l’inizio dell’invasione russa. «Ora siamo senza luce, né acqua. Possiamo usare un generatore per un’ora al giorno. Lavo i bambini con l’acqua piovana… e non posso credere che stia succedendo. Perché sta succedendo?», continua a ripetere Irina. La sua testimonianza dà la misura della disperazione che si nasconde nelle cose più semplici: il ristorante dove era solita cenare con i suoi parenti è interamente distrutto, il mondo che conosceva si sta sgretolando. Non sa come farsi bastare i pannolini, non sa che rispondere alla bambina più grande che vorrebbe tornare nella sua cameretta. È la guerra che cambia ogni prospettiva, che ribalta ogni paradigma, e ci fa interrogare su quanto riteniamo scontato.

L’altro dramma, in Afghanistan

«Le donne in Afghanistan si scontrano con molti ostacoli per via delle restrizioni di genere imposte dai talebani, che hanno intaccato la capacità delle donne di godere dei loro diritti fondamentali», racconta al Dubbio Angiza Nasiree, giurista afgana rifugiata in Canada. Dopo che lo scorso agosto i talebani hanno ripreso il potere, spiega, «soltanto una minima parte di donne, in alcuni settori specifici che sono quello sanitario e dell’istruzione, hanno avuto il permesso di andare a lavorare, ma purtroppo non è una situazione generalizzata in tutto il paese. Altre donne che sono dipendenti statali, incluse le mie colleghe al ministero degli Esteri, non hanno il permesso di andare in ufficio. È aumentata la violenza nei loro confronti e questo ha un impatto sulla loro libertà di circolazione, espressione, informazione, protezione, istruzione e occupazione», spiega ancora Angiza. Che per l’8 marzo vuole condividere un messaggio di speranza e solidarietà: «Non dimenticatevi di noi — dice —. Abbiamo ancora bisogno di aiuto. Vorrei che le amiche e gli amici italiani possano essere la nostra voce, la voce che è ancora negata alle donne afghane».