Il Pnrr manifesta un’adeguata attenzione al tema della giustizia. È una buona notizia. Evitando inutili dettagli - visto che il Piano è in corso di realizzazione e sarebbe prematuro trinciare giudizi sulla sua efficacia - conviene piuttosto offrire qualche riflessione dal punto di vista delle imprese e del sistema economico in generale.

Sono, ormai, innumerevoli gli studi sulla relazione positiva tra efficacia del sistema giudiziario e tasso di crescita di un’economia. Il principale canale di trasmissione riguarda gli investimenti, i quali dipendono positivamente dal prodotto (marginale) del capitale e negativamente dal costo del capitale stesso. Una giustizia scarsamente funzionante da una parte peggiora il rendimento atteso degli investimenti, dall’altro ne accresce il costo, il quale dipende dall’incertezza e dalla rischiosità legate al processo d’investimento. Non c’è nulla di più incerto - e, quindi, costoso - di una giustizia dai tempi dilatati e dagli esiti non ragionevolmente prevedibili. Pertanto, l’investimento è minore quando le condizioni del sistema giudiziario sono peggiori. Senza investimenti, l’accumulazione di capitale langue, l’innovazione non sboccia, il capitale umano emigra o non è impiegato in modo efficiente.

A questo semplice schema, la politica economica del nostro Paese ha associato, fino a oggi - è il caso di sottolinearlo - una balzana strategia, improntata a quella che potemmo definire perfetta sostituibilità dei fattori dentro la funzione di produzione. In parole povere, si ha l’impressione che qualche legislatore nel corso del tempo abbia considerato sostituibile il costo del lavoro con l’imprevedibilità, appunto, degli esiti del processo (in particolare quello civile): la decontribuzione del lavoro, per esempio, in taluni territori, compenserebbe deficit strutturali nella qualità e nel funzionamento delle istituzioni che caratterizzano l’ambiente in cui opera l’azienda, come appunto la giustizia. Come se, insomma, un’azienda potesse davvero decidere di investire in un territorio con tribunali inefficienti semplicemente perché il costo dei lavoratori risulterebbe inferiore rispetto a location dove la giustizia funziona. Questo trade-off semplicemente non esiste: così, sovente, gli incentivi sono soldi dei contribuenti (cioè, nostri e vostri) buttati, mentre i problemi del sistema giudiziario restano.

L’Italia è in cima alle classifiche per la durata media di un processo (di cognizione per le cause civili nel primo grado di giudizio). Secondo la Corte Europea, negli ultimi sessant’anni, l’Italia ha conseguito, tra le principali economie europee, il non invidiabile primato di condanne per violazione dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, sia in relazione al diritto a un giusto processo, sia in relazione alla lunghezza del procedimento, sia in relazione alla non esecutività della sentenza. La quasi totalità si riferisce alla giustizia civile, per un totale di 1.501 condanne, contro le 129 della Germania, le 565 della Francia, le 69 della Spagna e le 123 del Regno Unito; rapportando questi numeri alla popolazione e posto pari ad 1 l’indice del Paese meno condannato (Spagna), l’Italia ha un parametro di 17,2, cioè è stata condannata 17 volte rispetto al migliore, considerando che la Francia, il secondo peggiore, è stata condannata solo sei volte rispetto al migliore.

All’origine di questo malfunzionamento del sistema giudiziario si collocherebbero varie cause di ordine strutturale che non possiamo qui analizzare. Osserviamo esclusivamente due aspetti della questione. Il primo, relativo all’offerta, riguarda il personale di staff ai giudici: in Italia 35 per 100mila abitanti, contro i 106 della Spagna, i circa 65 per Germania e Austria e i 49 circa della Svezia. A questo proposito, il Pnrr, nel processo di rafforzamento dell’Ufficio del processo, sembrerebbe porre un rimedio, colmando o quasi i suddetti gap, attraverso l’acquisizione di adeguate risorse. Non sarà risolutivo, ma è una strategia logicamente fondata ed empiricamente supportata dalle evidenze.

L’altro aspetto, molto più spinoso del precedente, riguarda la domanda. Facciamo riferimento al mito della straordinaria litigiosità del popolo italiano. Ora, pacificamente ammesso che non esiste il gene della litigiosità, si capisce che il problema è capire l’origine di quest’eccesso, piuttosto che prenderlo come un dato di partenza (è, piuttosto, l’arrivo). Se prendiamo sul serio il punto, lasciando da parte stravaganti congetture sul ruolo dell’avvocatura come sprone a intentare cause - la dimensione della domanda indotta sarebbe comunque marginale - non si può che fare riferimento tanto alla diffusa difficoltà nel capire norme e leggi quanto all’uso strumentale che alcuni cittadini fanno della giustizia denegata per resistere in giudizio in condizione di torto palese oppure, che è lo stesso, nel l’intentare cause per evitare di adempiere a un’obbligazione cogente.

Disgraziatamente, si vede che in entrambi i casi i problemi “di domanda” si ribaltano, trovandovi origine, nell’offerta di giustizia, dove norme e leggi in generale ne costituiscono il presupposto. D’altra parte, è una regola generale di chi opera in un mercato - non si offenda nessuno, per carità - assumere che i consumatori abbiano sempre ragione. Non si vede perché non si debba applicare questa massima di buon senso alla domanda di giustizia. Se c’è, ci deve essere una ragione genuina perché ci sia.

Allora le domande diventano: norme e leggi di cui disponiamo favoriscono negoziazioni private a costi minimi? O costituiscono, piuttosto, trappole ben congegnate per rendere difficile, più difficile, la vita di cittadini e imprese? Se la risposta alla prima domanda fosse positiva - e non lo è - la deflazione del contenzioso si otterrebbe da sé, attraverso transazioni tra le parti ben prima di sopportare i costi di una causa. È la visione ispirata al Teorema di Coase (in versione ultra- semplificata) delle norme come apparato che favorisce, non inibisce, tutti i possibili accordi tra privati.

Allo stesso tempo, se la risposta alla seconda domanda fosse positiva - e lo è - allora la riduzione dei tempi della giustizia passerebbe da una revisione del corpus di leggi in vigore, nella direzione di un’intellegibilità di come funzionano le norme, a partire dalla redazione dei famosi testi unici) per materia al fine di capire, preliminarmente, dove sono le norme e come si coordinano tra loro.

Certo è difficile. Ma dobbiamo fare le cose utili, non quelle facili. Affrontate queste ineludibili questioni, poi verrebbero i temi della produttività dei magistrati, l’ampiezza dei tribunali, la specializzazione dei giudici e degli avvocati e gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, riconoscendo, riguardo a quest’ultimo punto, che la mediazione non va imposta, ma incentivata, rendendola conveniente. Alla fin fine, il primo principio della giustizia giusta è che sia accessibile a tutti, in modo pieno e nella sua versione di eccellenza.