Si continua a dire che la riforma del Csm brucerà i referendum. Che li renderà inutili. Ma non è così. Potrebbe anzi favorirne una maggiore visibilità, soprattutto se il dibattito fra i partiti attorno al ddl dovesse surriscaldarsi. E in ogni caso, non è affatto vero che l’approvazione definitiva della legge sulla magistratura farebbe decadere tutti e 3 i quesiti sulle toghe. Solo una proposta abrogativa può andare incontro a un simile destino: quella relativa alle firme che un aspirante togato del Csm deve raccogliere fra gli altri magistrati per candidarsi. Innanzitutto, sono “fuori pericolo” i referendum su legge Severino e custodia cautelare. Mentre per il resto, come ha spiegato il costituzionalista Giovanni Guzzetta in una dichiarazione riportata venerdì scorso su queste pagine, solo il quesito sulle firme per i candidati Csm verrebbe revocato, giacché la relativa norma sarebbe cancellata dal testo Cartabia: viceversa, sono “salvi” in ogni caso il referendum sulla separazione delle funzioni e quello sul voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. Motivo semplice e logico: nella riforma del Csm gli ultimi due argomenti sono affrontati con norme delega. Vuol dire che una volta in Gazzetta ufficiale, le regole su carriere e Consigli giudiziari non saranno immediatamente modificate: semplicemente, sarà in vigore un mandato del Parlamento al governo affinché quest’ultimo emani i decreti legislativi. Finché tali provvedimenti attuativi non saranno definitivamente adottati (e ci vorrà qualche mese), l’ordinamento giudiziario resterà, in quei punti, immutato. Perciò la consultazione popolare sui due relativi quesiti promossi da Partito radicale e Lega potrà tranquillamente celebrarsi. Secondo la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, esponente del Movimento 5 Stelle, anche su separazione delle carriere e voto degli avvocati sulle promozioni dei giudici, il ddl Cartabia sarebbe destinato ad «assorbire» i referendum, se non sul piano formale, quanto meno in termini sostanziali. È un punto di vista rispettabile ma non per questo condivisibile. Ed è la stessa tesi accreditata ieri da Enrico Letta alla direzione del Pd. Secondo il segretario dem, vanno dati per certi i No su Severino e custodia cautelare: posizione che Letta ha spiegato di aver condiviso al telefono con Giuseppe Conte, con il quale converge anche sulla tesi secondo cui «per gli altri 3 quesiti c’è il Parlamento». Macina, Letta e Conte danno però per scontato un automatismo inesistente. In base al testo del maxiemedamento Cartabia approvato dieci giorni fa in Consiglio dei ministri, le norme relative a separazione delle funzioni e voto dei laici nei Consigli giudiziari non solo sono enunciate sotto forma di delega, ma sono anche formulate in modo non sovrapponibile ai referendum. Persino nella irrealistica ipotesi secondo cui, alla data dei referendum, il governo abbia già emanato i decreti legislativi, il voto sui quesiti si terrebbe comunque. La riforma limita i passaggi da giudice a pm e viceversa, mentre la vittoria del Sì li vieterebbe del tutto. Il ddl Cartabia concede il voto nei Consigli giudiziari ai soli avvocati e in virtù di un procedimento che coinvolge anche gli Ordini forensi, mentre la vittoria del referendum riconoscerebbe il voto a tutti i laici, professori compresi, senza vincolarlo a delibere preliminari delle istituzioni di riferimento. Di più: sempre come fatto notare da Guzzetta, nell’ancora più remota ipotesi in cui le norme della riforma fossero sottratte alla delega e riformulate dal Parlamento in modo da diventare immediatamente efficaci, i due relativi quesiti referendari non verrerebbero annullati ma si trasferirebbero sulle nuove formulazioni appena introdotte. «Lo stabilisce la sentenza della Consulta numero 68 del 1978», ha spiegato il costituzionalista. Non si scappa, insomma: almeno 4 referendum su 5 sono blindati, destinati a non essere “assorbiti” dal ddl Cartabia. Ma il quadro appena descritto, va pure detto, non autorizza certo l’euforia dei referendari. Come ha ben illustrato un articolo di Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera, al momento il traguardo del quorum è un miraggio. E appunto, proprio la riforma del Csm è, paradossalmente tra i pochi fattori che potrebbero dare un po’ di ossigeno alla consultazione. Se il dibattito politico attorno al ddl si intensificasse, l’opinione pubblica potrebbe essere anche più attratta dalle questioni in gioco. Insomma, è vero il contrario di quanto affermato finora da Letta, Conte, Macina e dalla responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando. Così com’è vera un’altra cosa: al momento, i promotori potrebbero essere aiutati solo da un election day vero, e cioè dall’accorpamento dei referendum con il primo turno delle Amministrative. Ma servirebbe soprattutto una campagna referendaria corale, allargata a tutti i partiti che, tra mille differenze, sono favorevoli al Sì per almeno alcuni dei 5 quesiti. Tanto per intenderci: se è vero che Fratelli d’Italia è per il No su legge Severino e carcere preventivo, un convinto impegno di Giorgia Meloni sulla separazione delle funzioni renderebbe meno impervia la missione dei radicali e di Salvini. Peccato la realtà sia tutt’altra: c’è l’opportunità di un voto popolare su garantismo e magistratura, ma l’atmosfera è da flop.