Si è conclusa sabato scorso la due giorni per l’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti di UCPI che quest’anno ha avuto sede a Catanzaro, nello splendido scenario del Teatro Politeama. Ho avuto l’onore di intervenire alla IV sessione dei lavori, che, in vista del recentissimo D. Lgs. 188/21 attuativo della direttiva comunitaria 343/2016, è stata dedicata a “informazione giudiziaria e presunzione di innocenza”. A margine dell’incontro, ho provato a mettere a punto alcune riflessioni di principio sul contenuto di quel decreto, sul quale tanto si è già scritto e, v’è da credere, tanto ancora si scriverà, anche alla luce delle prassi applicative che ne dovranno scaturire. Per farlo, mi è apparso utile muovere dalla reazione che la sua entrata in vigore ha generato in un paio di casi. Il 27 novembre dello scorso anno, dalle pagine del Corriere della Sera, Luigi Ferrarella anticipava la pubblicazione del decreto con una garbata e ragionata critica ad un testo normativo che, chiudendo i rubinetti ufficiali delle notizie o, comunque, limitandone molto la portata, avrebbe alimentato una vera e propria “guerra informativa”. Uno scenario bellico in cui con il giornalista, quasi un “casco blu dell’Onu”, è condannato a combattere per cercare materiale al mercato nero delle notizie, essendogliene altrimenti precluso l’accesso. Peraltro, osservava ancora l’autorevole commentatore, per una eterogenesi dei fini, nel tentativo di “tagliare le unghie ai PM” la normativa sembra al contrario dotarli di un ulteriore affilato artiglio: saranno loro a scegliere se, cosa e quando comunicare ai mezzi di informazione. Il 6 febbraio, dalle pagine del Fatto Quotidiano, il dott. Gratteri, Procuratore della Repubblica di Catanzaro, in maniera più frontale, additava le nuove norme come un tentativo di offuscamento della “rilevanza sociale del diritto all’informazione” e, addirittura, “del diritto alla verità delle vittime di gravi reati”. Secondo il Procuratore Gratteri, il decreto impedirebbe di “spiegare ai cittadini l’importanza dell’azione giudiziaria nei territori controllati dalle mafie” assottigliando il già labile filo fiduciario che consente a quelle stesse vittime di squarciare, talvolta, il velo dell’omertà. Tra i timori espressi dal magistrato poi, anche “il silenzio” causato dal decreto, in grado, par di capire, di creare un brodo di coltura favorevole alla proliferazione del fenomeno mafioso che, come si sa, nel silenzio sguazza e cresce. Sono due posizioni sideralmente distanti per modi e argomenti, forse solo accomunate dall’idea della non necessarietà dell’intervento legislativo, in un caso perché reiterazione di principi che dovrebbero già essere introiettati a partire dall’art. 27 della Costituzione, nell’altro perché la norma europea sarebbe indirizzata ad altri paesi non ancora provvisti, a differenza dell’Italia, di sufficienti presidi a garanzia della presunzione di innocenza.  Lascio a chi legge di riflettere in adesione alla propria sensibilità su ciascuna di esse, limitandomi, per questo aspetto, solo a segnalare che, a differenza delle parole di Ferrarella, le censure del dott. Gratteri mi appaiono squadrate con l’ascia della retorica più che affinate con il cesello del ragionamento. Al di là di questo però, mi preme invece segnalare un’altra cosa. Ciò che a me pare dirimente, per risolvere il giudizio sulla norma, è che, in disparte gli effetti concreti, sui quali potrà tornarsi con interventi correttivi e persino con l’opera di mediazione delle circolari applicative (lo dimostrano quelle adottate rapidamente dai Procuratori Capo di Bologna, Giuseppe Amato, e di Perugia, Raffaele Cantone, partecipi della sessione di lavori) il decreto ha il pregio indiscutibile di rimettere al centro il vero cuore dell’informazione, vale a dire l’individuo che ne è oggetto. Dietro ogni notizia c’è un uomo, una famiglia, le loro vite. È materiale delicato, da maneggiare con estrema cautela. In questo senso, allora, il decreto alza chiaramente l’asticella, avanza la linea di protezione. La nuova norma, oltre che di far “considerare” l’imputato come innocente fino alla sentenza definitiva, mi pare si prefigga soprattutto lo scopo di farlo “rappresentare” come tale. E non è una sfumatura. Messa così, infatti, riportata cioè sulla piazza della comunicazione, la questione diventa decisiva e la norma non solo opportuna, ma pure necessaria. Basta rileggere le rassegne stampa sulle più recenti vicende di clamore mediatico per avvedersi che la continenza concettuale non è appartenuta alla nostra informazione se non in un numero sparuto di casi; con l’aggravante che la bulimia informativa spinge ad accendere i riflettori sulle vicende in modo fulmineo, illuminandone l’inizio (l’indagine, meglio se con arresti) e disinteressandosi degli esiti del processo. I dati valorizzati dall’informazione sono quindi solo quelli investigativi, con buona pace tanto del loro essere per definizione provvisori, quanto del fatto che il controllo processuale, in un numero nient’affatto basso di casi concreti, li smentisce. Ed allora, se una critica può muoversi al decreto non è certo la sua innecessarietà, quanto quella di non aver corredato i propri precetti con apposite sanzioni procedurali, avendo costruito invece un sistema di controllo e rettifica dotato di un certo tasso di fideismo. C’è da immaginare che la norma avrà, almeno nell’immediato, una vita non semplice, ma ciò non deprime affatto le ragioni della sua opportunità; anzi le enfatizza. Forse è vero che il nostro ordinamento conteneva già, almeno in parte, le istruzioni per l’uso corretto dell’informazione giudiziaria, ma quel bugiardino è rimasto troppo spesso chiuso in una scatola che questo decreto contribuisce forse in qualche misura ad aprire.