«Sono convinto che il Csm avrebbe voluto cacciare, o quantomeno punire, Francesco Greco per la malagestione del caso Ungheria, o magari anche per altro, prima del suo pensionamento. Ho avuto la sensazione che abbiano provato a usarmi per raggiungere l’obiettivo». Una delle ultime bombe di Luca Palamara sul “Sistema” giustizia arriva a pagina 37 del suo nuovo libro, dal titolo “Lobby & Logge - Le cupole occulte che controllano “il Sistema” e divorano l’Italia” (Rizzoli), scritto a quattro mani con il giornalista Alessandro Sallusti, da oggi in libreria. Bomba che racconta l’ennesimo retroscena dell’intricata e oscura vicenda dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno dell’Eni, “pentito” utilizzato dalle procure di mezza Italia, considerato credibile a momenti alterni, che ha provocato un terremoto all’interno della procura di Milano, spaccando - per l’ennesima volta - il Csm. Il procuratore Greco, da novembre scorso in pensione, è uscito pulito dalla vicenda relativa alla gestione del caso della presunta “Loggia Ungheria” con un’archiviazione rimediata in virtù della «infondatezza», secondo il gup di Brescia, delle accuse mosse dal pm Paolo Storari, colui che raccolse le dichiarazioni di Amara lamentando l’inerzia dei vertici del Palazzo di Giustizia. Presunta inerzia che lo spinse a consegnare quei verbali all’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. L’opinione di Palamara, però, è diversa. E forse lo era anche quella del Csm, stando al suo racconto, al punto da ipotizzare una “trappola” nella quale qualcuno avrebbe voluto coinvolgerlo. Il fatto, inedito, riguarda la sua convocazione proprio a Palazzo dei Marescialli, che ad ottobre del 2020 aveva decretato la sua espulsione dall’ordine giudiziario per i fatti dell’Hotel Champagne e il mercato delle nomine. «Siamo nel marzo del 2021, il libro Il Sistema è in giro da due mesi e sta minando l’ipocrita equilibrio di chi prova a salvarsi dal caso Palamara. Per di più, come abbiamo visto, sotto la cenere cova la brace della loggia Ungheria sfuggita dalle mani al procuratore di Milano Francesco Greco. Con mia grande sorpresa mi convoca, dall’oggi al domani, la prima commissione del Csm, quella che si occupa delle incompatibilità dei magistrati - racconta -. Mi presento, la presidente è Elisabetta Chinaglia (della corrente Area, la stessa di Greco, ndr), entrata al Csm grazie alle dimissioni di consiglieri coinvolti nel mio caso. Pronti via, la prima domanda che mi fa è contro Francesco Greco. Resto incredulo, la guardo negli occhi e vorrei dirle: ma lei signora, mi prende per un cretino?». La sensazione di Palamara è chiara: qualcuno vuole usarlo. Anzi, ne è convinto. E chiarificatrice, per lui, è la domanda che gli viene posta, che nulla ha a che fare con la vicenda Ungheria e arriva a tempo quasi scaduto rispetto alla carriera di Greco, ma anche a notevole distanza dai fatti dell’Hotel Champagne, per i quali i procedimenti disciplinari sono ormai avviati da un pezzo. La domanda di Chinaglia è precisa: «Mi chiede: quando lei era al Csm Francesco Greco le ha mai dato indicazione, o lei si è mai accordato con Francesco Greco, per la nomina dei procuratori aggiunti di Milano?». Palamara è consapevole che per affossare Greco basterebbe una sillaba, che distruggerebbe anzitempo la sua carriera, ormai agli sgoccioli. «Un mio sì e Greco sarebbe morto all’istante. Penso: è della stessa corrente di Greco, è arrivata dove è arrivata all’interno della spartizione tra le correnti – lo so, c’ero e l’ho fatto – con cui si nominano i procuratori e i loro vice, e viene a fare a me questa domanda. Mi sembrava di essere su Scherzi a parte. Controllo lo sdegno e la rabbia e rispondo “ovviamente no”. Delusione generale, ma ancora oggi mi chiedo: chi in quel momento voleva fare fuori Greco – ovviamente Chinaglia stava solo eseguendo degli ordini – a pochi mesi dalla pensione? Anche perché dalle domande successive era palese che qualcuno voleva mettere in difficoltà Greco per il suo rapporto con Laura Pedio, la pm che aveva interrogato Amara sulla loggia Ungheria insieme a Storari, ma che a differenza di Storari non dava di matto per accelerare l’inchiesta». L’obiettivo, dunque, non è solo Greco, ma forse anche Pedio. La cui posizione a Brescia è ancora aperta e che, nonostante questo, continua ad avere in mano il fascicolo sul “Falso complotto Eni”. Della nomina di Pedio, avvenuta nel 2017, Palamara ammette di averne parlato con Greco, al quale la magistrata era vicina: «Per me era fisiologico farlo, faceva parte del mio ruolo di regista del Sistema». L’interrogatorio di Palamara finisce nel buco nero del segreto, che Chinaglia raccomanda vivamente all’ex pm di mantenere. Un’ipocrisia che l’ex zar delle nomine non manca di evidenziare, ricordando come tutto, a tempo debito, sia uscito fuori dalle stanze di Palazzo dei Marescialli, compresa l’audizione del procuratore di Perugia, Raffaele Cantone, sulle intercettazioni mancanti nel caso Palamara, in particolare quella riguardante il suo incontro con l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone. Insomma, un clima surreale, quasi si tentasse di nascondere la polvere, per l’ennesima volta, sotto il tappeto, in una situazione che gli appare ridicola anche per un altro fatto: la vera domanda, afferma, avrebbe dovuto riguardare proprio la nomina di Greco. «Invece di chiedermi dei vice di Greco avrebbe dovuto chiedermi: scusi, ma lei nel 2016 ha per caso trattato o partecipato a trattative per la nomina del procuratore Greco? E io avrei risposto: certo che sì, con lui direttamente, con molti di voi che oggi sedete qui a fare i miei giudici». E snocciola anche altri nomi: di quella nomina, afferma, parlò anche «con l’attuale presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, allora membro laico del Csm in quota Forza Italia, e poi con l’attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando, all’epoca dei fatti ministro della Giustizia e mio referente informale per le politiche giudiziarie nel Pd. E ultimo, non in ordine di importanza, anche con l’attuale presidente del tribunale vaticano Giuseppe Pignatone, allora procuratore di Roma». Una nomina in continuità con l’uscente Bruti Liberati e contro chi, invece, «cercava un papa straniero per provare a intaccare quella fortezza autonoma che era la procura di Milano». Alla fine vinse Greco, candidato di sinistra, al termine di «un lavoro certosino», frutto di incontri a tutti i livelli, con il placet anche dei laici del centrodestra, che «convogliarono su Greco, evidentemente ritenuto il minore dei mali».

Il caso verbali

La procura di Milano, all’epoca di questa audizione, è già lacerata dalla vicenda Amara. Una vicenda che, secondo Palamara, non sarebbe stata gestita in maniera chiara. Da un lato, a distanza di due anni, sulla presunta Loggia nulla è ancora stato chiarito a livello giudiziario, dall’altro la stampa ha silenziato la vicenda sino ad aprile scorso, quando il quotidiano Domani ha rotto il silenzio tirando in ballo le consulenze dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Solo allora iniziarono a parlarne anche Repubblica e Fatto Quotidiano, che quei verbali li avevano ricevuti mesi prima, spediti in forma anonima - secondo la procura di Roma - dall’ex segretaria di Davigo. Plichi che però i giornalisti consegnarono subito in procura, temendo una polpetta avvelenata. Una scelta incomprensibile per Palamara, secondo cui per verificare molte delle notizie contenute in quegli atti segreti sarebbero bastati pochi attimi. «Mi domando: ma se in quelle carte ci fossero stati nomi altisonanti della politica italiana, attuali leader, i giornali avrebbero fatto la stessa melina? E soprattutto: la procura di Milano prima e il Csm poi si sarebbero comportati allo stesso modo, cioè avrebbero tenuto tutto fermo tutto per due anni? Oppure i leader politici sarebbero stati iscritti nel registro degli indagati un secondo dopo?». La risposta, sembra dire tra le righe Palamara, è no. Le strade possibili erano due: iscrivere Amara per calunnia o indagare su tutti coloro indicati come appartenenti alla loggia, in un lasso di tempo che va da uno a un massimo di sei mesi. «Le faccio un esempio, così capiamo meglio come funziona: dalla sera in cui alla questura di Milano è scoppiato il caso Ruby al giorno in cui Ilda Boccassini ha chiesto non un avviso di garanzia bensì il rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi sono passati solo sei mesi. E invece noi oggi dopo due anni non sappiamo nulla, o peggio ci si è mossi con avvisi di garanzia per appartenenza a una loggia segreta solo nei confronti di alcune delle persone citate da Amara, i soliti Verdini e Bisignani, come se esistessero cittadini di serie A e altri di serie C. Ma gli italiani hanno diritto di saperne di più. Conte c’entra, sì o no? E la Severino, e Lotti? Se la risposta è “no” ci vuole un pezzo di carta che lo dica». La vicenda, intanto, ha fatto cadere il prestigio e la credibilità di quelli che Palamara definisce «due mostri sacri del Sistema: la procura di Milano da una parte, Davigo e il suo mondo dall’altra. Più che un crollo è un terremoto, anche per i giornali che lì avevano i loro terminali. Conosco per esperienza diretta le triangolazioni tra magistrati e giornali. Dover mettere in discussione la rettitudine di Davigo per “il Fatto Quotidiano”, giornale su cui Davigo scrive, è un colpo al cuore. E lo stesso vale per il “Corriere della Sera” nei confronti di Greco». E forse è anche per questo che i giornali, in questa vicenda, si sono mossi in maniera strana, dopo aver pubblicato per anni qualunque cosa in barba a qualsiasi segreto istruttorio: «Ricorda la regola del tre raccontata nel Sistema? - spiega Palamara - Per gestire il potere ci vogliono tre elementi: una procura, un uomo della polizia giudiziaria o dei servizi segreti e un giornalista. E questa che stiamo raccontando è una storia in cui l’informazione ha agito o non agito a orologeria».