Io me lo ricordo perfettamente dov’ero il 20 luglio del 1969, alle 22 e 17. Ero a Taormina, anzi più precisamente a Naxos, in una pizzeria all’aperto, dove noi ventenni siciliani di belle speranze andavamo a battere i pezzi alle turiste svedesi. E ce n’erano a frotte quella sera, nei tavoli della pizzeria, una cosa da perdere il senno, mentre una tivvù piccola piccola messa su un trespolo continuava la sua telecronaca della “missione lunare”. Noi, un occhio lo davamo alla luna in tivvù e un altro alle pelli lunari – per noi mediterranei una vera cosa “aliena” – delle bellezze nordiche e ai loro mappamondi che promettevano conquiste lussureggianti quaggiù, altro che quella brulla superficie pietrosa lassù. Così, quando Tito Stagno annunciò “reached land” – ha toccato, ha toccato – noi giovanottini ci prodigammo in un abbraccio pieno di slancio verso le nordiche bellezze, non era un grande passo dell’umanità quello? Ma che – Tito Stagno aveva anticipato di cinquantasei secondi la cosa, e Ruggero Orlando, da Houston, disse che no, non avevano toccato, e ci furono trenta lunghi secondi di apprensione e delusione che smosciò la cosa. E insomma, quella sera in cui conquistammo la luna, io non conquistai proprio nulla e andai in bianco: eravamo fraterni sì, ma ognuno al posto suo. Me ne rimase perciò una delusione che buttai in politica: gli americani avevano raggiunto e superato il “mio” Gagarin; via dalla Luna, yankee go home. La verità è che la lunga “maratona Stagno” – venticinque ore di trasmissione che Mentana se le sogna di notte – pose fine a tutte le romanticherie. Come avremmo potuto ancora cantare alla luna una qualunque nostra poesia d’amore, come avremmo potuto raccontare alla luna, sorella cara, una nostra delusione d’amore? La luna, ormai, era cronaca. E in diretta, persino. Come se – lo disse Margherita Hack – qualcuno avesse raccontato alla televisione lo sbarco di Colombo nelle Americhe. Ecco, ha toccato, ha toccato l’isola di San Salvador. Si perde tutta la poesia, no? D’altronde, lo aveva già detto il musico: «E 'a luna rossa me parla 'e te / Io le domando si aspiette a me / E me risponne si 'o vvuo' sape' / Cca' nun ce sta nisciuna». Non ci sta proprio nisciunu sulla luna – che ci siamo andati a fare? Almeno, Astolfo con il suo Ippogrifo – che di certo era più interessante del Saturn V, il gigantesco razzo che consentì di raggiungere la luna, alto come un palazzo di 35 piani e con un diametro di 10 metri, il razzo più potente mai costruito e che fu usato per tutte le missioni Apollo – era stato mandato dall’Ariosto a recuperare il senno di Orlando, pazzo d’amore per la bella Angelica che invece aveva sposato un saracino qualunque, un Medoro qualsiasi, e lì aveva trovato le cose che gli uomini perdevano sulla terra, sterminate distese di ricordi e di lacrime e sospiri d'amore, d'ozio, di tempo perso nel gioco, di desideri irrealizzati («ciò che si perde qui, là si raguna»), che riempivano l’Oceanus Procellarum, il Mare Tranquillitatis, il Mare Serenitatis. «Le lacrime e i sospiri degli amanti, l'inutil tempo che si perde a giuoco, e l'ozio lungo d'uomini ignoranti, vani disegni che non han mai loco, i vani desideri sono tanti, che la più parte ingombran di quel loco: ciò che in somma qua giù perdesti mai, là su salendo ritrovar potrai» – chissà, all’Ariosto sto sbarco americano sulla luna non sarebbe piaciuto granché. Ma Tito Stagno, un biondo sardo, morto ieri a 92 anni, che era entrato in Rai giovanissimo occupandosi di telecronache sportive, nel 1957 aveva dato notizia dello Sputnik, il primo satellite nello spazio lanciato dai russi, e nel 1961 era stato il telecronista del primo volo del cosmonauta russo Jurij Gagarin intorno alla Terra, e da allora la Rai gli aveva affidato le trasmissioni e i servizi del telegiornale di tutti i fatti relativi alle missioni spaziali. Era un entusiasta, insomma. E riuscì a riversare il suo entusiasmo in quella piccola scatola – da noi c’era un solo canale, in bianco e nero – che teneva assieme per la prima volta tutto il mondo a guardare la luna nel proprio tinello dentro un monitor invece che con il naso all’insù, come avevamo fatto per decine di migliaia di anni. E insomma, c’è in quella lunghissima diretta di Stagno l’Italia tutta di quegli anni, che si affacciava finalmente alla modernità – c’era stato il ’68 studentesco e l’autunno caldo a scrollare un mondo sonnecchioso e conservatore – e al futuro: i razzi, lo spazio, la conquista della luna. Lo disse anche Stagno, dopo: «Una stagione di entusiasmi, di coraggio, di desiderio di conoscenza che si rivelò poi troppo breve». Ma ci arrivavamo all’italiana, abborracciando, anticipando di cinquantasei secondi l’allunaggio oppure spostandolo in differita di dieci – insomma, non azzeccando il momento esatto. L’affabulazione prendeva il posto della scienza. Anni dopo – quando poi passò a dirigere per circa vent’anni «La Domenica sportiva» – chiesero a Stagno cosa fosse successo davvero e cosa ne pensasse – era stato il tormentone che gli era rimasto appiccicato addosso – e lui rispose che avevano ragione entrambi, sia lui che Ruggero Orlando, che era un modo elegante per dire che avevano sbagliato tutti e due. Ma cosa importava – era davvero un dettaglio in quell’evento straordinario in cui conquistavamo la luna, immaginavamo già l’uomo che si proiettava nello spazio, e tutti eravamo felici. Beh – meno me. Io ero andato in bianco.