L'avvocato Cristiana Valentini, ordinario di procedura penale presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociali dell’Università “Gabriele d’Annunzio”di Chieti-Pescara, ha scritto per "Archivio penale" un articolo intitolato "Riforme, statistiche e altri demoni", frutto di una ricerca dell'Università, condotta insieme al professore di statistica, Simone Di Zio. Sono stati mossi dalla convinzione che senza conoscenza dei dati offerti dal mondo reale non è possibile alcun reale cambiamento. A maggior ragione quando si parla di giustizia, tanto è vero che la ministra Cartabia, durante la sua relazione al Parlamento, ha annunciato l'istituzione del Dipartimento del ministero che si occuperà della transizione digitale e della statistica.

Stiamo vivendo un periodo di riforme nel campo della giustizia. Eppure molti dati riguardanti la sua amministrazione sono sconosciuti.

Credo che la giustizia penale sia stata per troppo tempo un campo oscuro, in cui molte cose, troppe, navigano al riparo della formula del segreto, declinato in varie misture. Lo Stato ha il dovere di agire in modo trasparente: nel campo del diritto amministrativo, le discipline dell’accesso agli atti hanno portato doverosa luce negli incunaboli dell'apparato; nel settore specifico del processo penale, poi, la Corte europea ripete che (perfino) le indagini devono essere trasparenti. Epperò in questo Paese la trasparenza sembra per molti versi ancora un sogno ingenuo e non è cosa che dovrebbe accadere in uno Stato di diritto. Ecco, la prima forma di trasparenza dovrebbe iniziare dalle statistiche sul processo penale. Una vera democrazia non dovrebbe tollerare che l’attività dei suoi organi sia scarsamente decifrabile e ben poco pubblica.

Quindi ben venga il nuovo dipartimento annunciato dalla Guardasigilli?

Certo. Ma è fondamentale che ci sia piena e totale trasparenza sul metodo usato e sulla totalità dei dati raccolti.

Nel suo articolo lei analizza anche le relazioni dell'anno giudiziario in Cassazione. Rispetto alle ultime: per il Primo Presidente Curzio circa il 50% dei processi di primo si conclude con l'assoluzione, mentre per il Procuratore Generale Salvi solo il 21%.

Ho letto i dati a cui lei fa riferimento. Per quanto questo tipo di analisi sia cosa delicata, posso dire, in via di prima approssimazione, che, anche sulla scorta degli studi da noi condotti sulla base dei dati ufficiali della Direzione Generale di statistica e analisi organizzativa del Ministero, sono corretti i numeri sui proscioglimenti indicati dal Primo Presidente. E sono numeri sconvolgenti. Se lei aggiunge a quel 50,50% di esiti assolutori da parte del giudice monocratico adito a citazione diretta, i numeri delle prescrizioni, si arriva sicuramente – lo dico a spanne - attorno al 60%, forse di più. Ripeto, mi sembrano numeri sconvolgenti, che sarebbero degni della più grande attenzione, e invece non è stato così da parte di nessuna delle recenti riforme. Si è preferito “manganellare” il giudizio d’appello, che – purtroppo per l’efficienza delle riforme in questione - si colloca a valle della maggior parte delle declaratorie di prescrizione.

Questi dati ci dicono forse, come lei ha scritto, che "l'azione penale viene troppo spesso esercitata in assenza dei corretti requisiti". Anche Curzio ha bacchettato pm e gup in tal senso.

Qui devo scomodare una molteplicità di concetti noti: il processo penale è una pena in sé, un tormento autentico per l’imputato; sottoporre un innocente ad un processo che potrebbe essere evitato semplicemente con indagini più accurate o anche semplicemente condotte nel rispetto dell’art. 358 c.p.p.(cioè anche a favore dell’indagato) è un’abitudine radicalmente contrastante con la presunzione d’innocenza, oltre ad essere uno scempio etico. È la famosa “azione penale apparente” da cui ci mise inutilmente in guardia anni fa la Corte costituzionale: fenomeno gravissimo, che conosce molte sfaccettature, che giungono fino ai casi – frequentissimi nella prassi, come ben sanno i difensori - di azione penale esercitata sulla scorta della mera querela e poco altro. D’altra parte, quando osserviamo il fenomeno nella prospettiva della vittima del reato, il risultato è simile: la Cedu insegna da tempo che la vittima ha diritto ad indagini complete e di qualità, perché si arrivi non ad un responsabile purchessia, ma all’effettivo responsabile. Infine, un pensiero che potrebbe apparire brutale, ma è solo schietto: la giustizia è un bene prezioso e non va sprecato; sprecarlo significa assumerci le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti, ovvero una giustizia sommersa dai numeri e troppo spesso priva di qualità.

Una commissione ministeriale sta lavorando ai decreti attuativi della riforma del processo penale. Il suo articolo “ha eletto ad oggetto d’analisi la gestione delle indagini preliminari e dell’alternativa tra agire e archiviare”. Che consigli ha da dare a chi dovrà riformare questa parte?

Un suggerimento che mi sento di fare a cuor leggero, e che dovrebbero senz'altro seguire, è l’abbandono della circolare Pignatone come modello per la disciplina dell’iscrizione della notizia di reato e del modello 45.

Intende gli atti non costituenti notizia di reato, che riposano nel “limbo” della non sicura definibilità?

Esatto. È un terreno delicatissimo e il modello Pignatone riporta il nostro codice a forme di autogestione della notizia di reato da parte delle Procure che ricordano molto la struttura del codice Rocco, prima della riforma urgente realizzata dopo la caduta del regime fascista. Quel modello trasforma la notizia di reato in una creatura gestibile ad libitum dalle Procure e nella più totale mancanza di trasparenza: Tizio viene perseguito e va a giudizio, Caio, invece, viene “salvato” grazie al modello 45. Immagini di trovarsi a difendere una persona cui vengono addossate responsabilità spettanti in realtà ad altro soggetto, la cui posizione è stata semplicemente cestinata con un tratto di penna e senza controllo giudiziale. Un incubo che esiste già oggi e che s’intende allargare a dismisura. Stento davvero a comprendere come sia possibile, in questo momento storico, fornire alle Procure poteri del genere, che riescono ad eclissare senza rumore persino notizie di reato provenienti dagli organi di polizia giudiziaria. Forse, poi, esistono margini anche per eliminare un altro buco nero del nostro codice, ovvero la stentata disciplina delle investigazioni difensive, che allo stato consente al pubblico ministero di ignorare bellamente le indagini della difesa, anzi persino di ostacolarle.

A proposito di Pignatone, qualche giorno fa ha scritto un articolo in cui ha detto che la giustizia è lenta a causa dei troppi gradi di giudizio, dei troppi avvocati e del divieto della riforma in peggio.

Sono discorsi già fatti, mi stupisce che si continui a proporre riforme simili ad onta della loro inconsistenza pratica e dell’insostenibilità scientifica. La storia dei troppi avvocati mi fa sinceramente sorridere: mica parliamo di processo civile dove l’azione è esercitata dagli avvocati? Il lavoro agli avvocati, qui, sono le Procure a fornirlo. Forse sotto simili assunti si sottende che gli avvocati “inducono” i loro assistiti ad impugnare; insomma, non sono discorsi da farsi. Piuttosto direi che sono i magistrati ad essere in numero nettamente inferiore rispetto al necessario. Quanto al tema del divieto di riforma in peius, mi sembra costituzionalmente disdicevole ed evoca nuovamente un istituto caro al legislatore fascista; senza dire che avrebbe la stessa inesistente efficacia deflattiva dell’art. 96 c.p.c., privo di effetti apprezzabili, come ben sanno i civilisti. Quanto all’argomento dei troppi gradi di giudizio, mi limiterò a dire che prima di sfiorare – anche solo sfiorare, ripeto - un tema del genere, andrebbe assicurata una reale qualità nell’amministrazione della giustizia; vogliamo parlare dei numeri degli errori giudiziari? Aggiungo invece questo: sono anni che si scarica la responsabilità dei ritardi del processo penale sulle povere Corti d’appello. Anche qui, però, i dati statistici dimostrano che i veri problemi stanno altrove. Ma su questo tornerò nella prossima tranche della nostra ricerca.