Pubblichiamo l'intervento del presidente della Camera Penale di Roma, avvocato Vincenzo Comi, all’inaugurazione dell’anno giudiziario del distretto della Corte di Appello di Roma.   I giudici del Distretto non restino insensibili al grido di dolore dei detenuti e rispettino l’articolo 27 della Costituzione. A nome degli avvocati penalisti romani – pur consapevole delle numerose e gravi criticità che viviamo quotidianamente sulla nostra pelle - desidero rivolgere il pensiero e l’attenzione in questa occasione ai 5.548 detenuti negli istituti del nostro distretto. Il livello di sviluppo di una società si misura sulla condizione degli ultimi, di coloro che vivono nella situazione più difficile. Noi avvocati penalisti romani siamo tra i testimoni più diretti delle condizioni dei detenuti negli istituti di Regina Coeli, di Rebibbia e degli altri penitenziari del nostro distretto. Ed è a loro che rivolgiamo il nostro pensiero insieme all’invito più convinto al presidente della Corte di Appello Dott. Giuseppe Meliadò, al Procuratore Generale dott. Antonello Mura, a tutti i magistrati del distretto a impegnarsi ad assicurare loro le garanzie e i diritti, a non trascurare l’umanità dell’esecuzione penale a rifuggire la concezione populista del processo penale. Ricordiamoci sempre che ogni detenuto è un essere umano. Non possiamo restare muti rispetto al grido di sofferenza che proviene da donne e uomini che, già privati della libertà personale, vivono oggi una condizione inumana e degradante. Non possiamo tollerare che le condizioni di sovraffollamento carcerario, il deficit di personale amministrativo, di polizia penitenziaria e di magistrati di sorveglianza impediscano il perseguimento dello scopo della pena e determinino la violazione lacerante del dettato costituzionale. La situazione si è ancora più aggravata a causa dell’emergenza sanitaria che ha pregiudicato i rapporti dei detenuti con il mondo esterno e prima di tutto con le famiglie e con i difensori. Il numero dei positivi in carcere cresce vertiginosamente in queste ultime settimane (35 positivi oggi a fronte di 17 della scorsa settimana). È aumentato drammaticamente negli ultimi anni il numero dei suicidi in carcere (54 in Italia nel 2021 e 5 già nel 2022) ed è solo di pochi mesi fa la notizia di una madre che è stata costretta a partorire in una cella del carcere di Rebibbia, episodio sul quale la nostra Commissione Carcere ha effettuato approfondimenti e verifiche. Nei giorni scorsi i detenuti della sezione di alta sicurezza del carcere di Viterbo hanno attuato forme non violente di protesta per le condizioni di abitabilità e di riscaldamento delle celle e degli spazi comuni, come ha riscontrato il dott. Stefano Anastasia, Garante delle persone sottoposte a privazione della libertà personale della Regione Lazio. Mancano idonee strutture per garantire la custodia e le cure dei detenuti affetti da malattie fisiche e psichiche e le REMS purtroppo restano solo una soluzione sulla carta a causa del numero di posti troppo esiguo rispetto alle richieste. Secondo i dati diffusi dal Ministero della Giustizia quasi un terzo della popolazione carceraria del Lazio è in attesa di giudizio e un terzo è reclusa per scontare una pena inferiore a cinque anni. Questo solo dato dovrebbe costituire oggetto di riflessione per la Magistratura: appare evidente che la custodia cautelare in carcere sia divenuta di fatto una sorta di anticipazione della pena, piuttosto che l’extrema ratio disegnata dal legislatore. Abbiamo il dovere di mettere al centro del nostro dibattito culturale - prima che giudiziario - il tema delle condizioni dei detenuti, dell’esecuzione della pena e delle misure cautelari a Roma e nel Lazio. Dopo il fallimento, nel 2018, degli “stati generali dell’esecuzione penale” è il momento di lavorare per una riforma innovativa e nel rispetto dei diritti fondamentali dei condannati. La sensibilità culturale e politica del Ministro della Giustizia Marta Cartabia rende maturi i tempi per un intervento non più procrastinabile; è il momento di ripensare alle modalità di esercizio del potere fisico dello Stato sui cittadini, rientrando nel solco tracciato dalla Costituzione. Serve subito un provvedimento emergenziale che restituisca legalità all’esecuzione penale: ogni ora persa su questo terreno è un danno ingiusto che lo Stato infligge a soggetti di cui dovrebbe avere la cura e la custodia. Amnistia e indulto, che vengono evocati da tempo come possibili rimedi, restano la strada maestra. Ma se le maggioranze politiche non consentissero di percorrerla, si batta almeno la via della liberazione anticipata speciale, magari affidando la decisione alle direzioni delle carceri, come propone il partito Radicale, da sempre in prima linea per le battaglie a difesa dei diritti dei detenuti. La Camera Penale di Roma ha già deliberato – non appena sarà possibile – l’organizzazione di una iniziativa sul carcere nel Lazio che coinvolga la società civile, le numerose associazioni che si occupano dei detenuti, gli operatori penitenziari, la Polizia Penitenziaria e la magistratura di Sorveglianza. Il carcere non deve restare una discarica sociale di cui è meglio non parlare, ma deve diventare l’oggetto centrale dell’attenzione collettiva che si plasmi sulla sensibilità e sulla consapevolezza dei principi costituzionali che ispirano la finalità della pena. Non possiamo assistere alla perdita della speranza dei detenuti, non possiamo tollerare una visione carcerocentrica della pena e non possiamo accettare le condizioni disumane in cui vivono molti detenuti. Basta con le parole, non c’è più tempo. E non vogliamo più morti in carcere, sofferenze o violenze. Noi vogliamo che sia garantito il rispetto dei principi contenuti nell’articolo 27 della nostra carta costituzionale. Solo quando nessun uomo subirà in carcere un trattamento disumano la ferita costituzionale potrà dirsi rimarginata.