Quante volte il padre, Enzo, lo si è sentito sospirare: “Mi hanno fatto scoppiare una bomba dentro…”; quella bomba, infine, il 18 maggio del 1988 lo uccide. Il “tic-tac” della “bomba” comincia cinque anni prima: il 17 giugno 1983, quando su ordine della procura di Napoli Tortora viene arrestato a Roma nel cuore della notte, e poi, ore dopo “esibito”, in manette, portato in carcere a Regina Coeli tra due “ali” di fotografi e tele-cineoperatori adeguatamente informati. Un osceno circo mediatico. Quando le immagini vengono trasmesse dal “Tg2”, un gruppo di giornalisti, stomacato, irrompe nella stanza dell’allora direttore Ugo Zatterin, si fa consegnare la casetta con le immagini, e provvede a distruggerle. Silvia Tortora ha appena vent’anni; lei e la sorella Gaia, figlie amatissime di Enzo, assistono allo scempio, alla barbarie che massacra il padre. Coincidenza dei numeri: Silvia ci lascia quando ha gli stessi anni del suo babbo. «Ormai divido la gente in due categorie molto semplici», dice Enzo: «quelli che conoscono sulla pelle l’infamia di una carcerazione in un regime cosiddetto democratico, protratta all’infinito, protratta per anni; e quelli che non hanno la jattura di conoscerla». «Mi aspettavo una riforma del sistema giudiziario, invece non è accaduto», dice Silvia. «I processi continuano all'infinito. Anzi in tutti questi anni c'è stata una esplosione numerica». Stessa amarezza, stesso severo “rimprovero” a chi può e non fa, a chi deve e non vuole; a chi non muove un dito, e inerte, indifferente, complice, assiste allo sfacelo di una giustizia che non è tale, e si risolve in arbitrio, decimazione. Ancora oggi risulta incredibile che il babbo di Silvia lo si sia potuto descrivere: “cinico mercante di morte”; e senza un’ombra di prova a sostegno di questa gravissima, infamante affermazione. È perfino accaduto che il Pubblico Ministero, rivolto a noi increduli, si sia rivolto severo assicurando che “più cercavamo le prove della sua innocenza, più trovavamo quelle della sua colpevolezza”. Solo che le prove non c’erano; e neppure ci si era dati pena di cercarle: un supposto numero di telefono di Tortora, e scovato in un’agendina della compagna di un camorrista, nessuno l’aveva controllato; e quando anni dopo è la difesa a farlo, si scopre che non di Tortora si tratta, ma di Tortona. Nella grafia, la “N” scambiata per “R”, anche così si può finire in galera. Chi più chi meno, tutti i magistrati dell’affaire Tortora hanno fatto carriera; e dei falsi collaboratori di giustizia, non uno che sia stato chiamato a rispondere delle menzogne propalate; quanto ai giornalisti: se non m’inganno uno solo, è stato condannato per aver scritto che Tortora si era impadronito dei fondi per i terremotati dell’Irpinia. Quella “bomba” che devasta Enzo non può non aver segnato anche Silvia. Provate a immaginare cosa può essere vedersi un padre stimato, amato, accusato d’essere affiliato alla camorra, spacciatore di droga, ladro. Provate a immaginare che devastazione può essere il vedere il proprio genitore ammanettato, condotto in carcere, e poi processato: la sua parola ridotta a niente, mentre vengono creduti personaggi come Giovanni Pandico: camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Raffaele Cutolo: lo interrogano  diciotto volte, solo alla quinta si “ricorda” che Tortora è camorrista; o come Pasquale Barra ‘o nimale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello, ne addenta l’intestino. Immaginatelo voi cosa può voler dire ogni giorno, per mesi, comperare un giornale, accendere la TV, e leggere e sentire sul conto del proprio padre farneticazioni che non si sa come contrastare, controbattere, respingere. Perché nelle ore successive all’arresto si fu davvero in pochi a credere infondate e assurde quelle infamanti accuse, e anche se tra noi c’erano Enzo Biagi e Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Giacomo Ascheri, Piero Angela, Massimo Fini…; tra i politici Marco Pannella; dopo, molto dopo, si sono accodati gli altri.  Giorni durissimi, per Silvia e Gaia; e per la compagna di Enzo, Francesca Scopellitti. Poi la candidatura per il Parlamento Europeo, offerta dal Partito Radicale, l’elezione; le successive dimissioni per non sottrarsi alla richiesta avanzata dalla magistratura di arresto; l’impegno totale per la giustizia giusta; il fisico già minato, e l’irriducibile volontà di tornare in RAI, a quel “Portobello” da cui era stato strappato, per poter dire: “…A che punto eravamo rimasti?”. Nel ripercorrere questa vicenda non posso negare di essere afferrato da un senso di sgomento, di angoscia: la consapevolezza di vivere in un paese dove la magistratura fa paura. Una situazione che Silvia ha vissuto e patito con grande dignità e fierezza; quella dignità e fierezza – buon sangue non mente! – figlie di suo padre. I sei referendum per la giustizia più giusta che, Corte Costituzionale piacendo, si spera di poter votare a primavera: vanno difesi e vinti anche nel nome di Enzo, e ora di Silvia.