Il carcere potrebbe cambiare radicalmente volto e migliorare lo standard di detenzione, adeguandolo ai cambiamenti tecnologici, sociali e culturali, nonché alle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza costituzionale e delle Corti europee. Ciò potrebbe avvenire se venisse recepita la relazione finale della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario presieduta da Marco Ruotolo, consegnata mercoledì scorso alla ministra della Giustizia Marta Cartabia.

Condividendo le indicazioni della ministra circa la necessità di adottare una strategia complessiva che agisca sulle strutture materiali, sul personale e sulla sua formazione, superando quella «disattenzione con cui per anni si è lasciato che peggiorassero le condizioni di chi si trova in carcere e di chi in carcere ogni giorno lavora», la Commissione ha elaborato soluzioni che vertono principalmente su due fronti: il primo è l’adeguamento tecnologico per il miglioramento della qualità della vita negli istituti penitenziari, l’altro è sui interventi, anche di tipo amministrativo, per dare attuazione a disposizioni della fonte regolamentare che non hanno ricevuto ancora piena applicazione. Per quest’ultimo punto, non solo l’attuazione dei regolamenti già esistenti, ma anche al potenziamento – solo per fare un esempio – del permesso premio, quale essenziale strumento di trattamento e volàno per la concessione di più ampie misure.

La Commissione parte dall’assunto che la pena, quale che sia la forma dell’espiazione, deve tendere a restaurare e a ricostruire quel legame sociale che si è interrotto con la commissione del reato. Nella sintesi della relazione finale, la Commissione sottolinea che la pena carceraria deve avere l’obiettivo di re- includere, di avviare un processo potenzialmente in grado di ridurre il rischio di ricaduta nel reato. Il suo perseguimento determina il soddisfacimento non soltanto dell’interesse del reo, ma dell’intera società, rispondendo a quel bisogno di sicurezza spesso avvertito come priorità dai consociati. Perché ciò accada – evidenzia la Commissione - occorre garantire una qualità della vita non solo “decente”, ma idonea all’attivazione di un processo di autodeterminazione che possa permettere al singolo di “riappropiarsi della vita”. Occorre, in altre parole, creare condizioni di sistema che consentano finalmente di considerare la risposta di giustizia come tesa a responsabilizzare in vista del futuro, più che a porre rimedio al passato.

C’è un interessante capitolo dedicato all’impiego delle tecnologie. La commissione indica di investire nella realizzazione di impianti tecnologici idonei allo svolgimento di diverse funzioni: da quella, essenziale, di miglioramento delle condizioni di sicurezza, impedendo anzitutto l’accesso di oggetti la cui disponibilità non è consentita alle persone detenute ( attraverso sistemi anti- droni, metal detector fissi, body scanner) sino a quella rivolta al mantenimento dei rapporti affettivi ( potenziamento dell’utilizzo delle comunicazioni a distanza) o al completamento dei percorsi di istruzione. Appare anche urgente la realizzazione di sistemi tecnologici che consentano l’individuazione e l’identificazione degli operatori nel corso delle perquisizioni, secondo una linea direttiva già indicata dal Dap in risposta ad una raccomandazione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.

Tecnologia utile anche per agevolare il mantenimento delle relazioni affettive come la disponibilità di telefoni cellulari ( ovviamente non generalizzata). Ma anche l’ introduzione di app per la prenotazione del colloquio da parte dei familiari; incentivazione del possesso di computer per i detenuti; introduzione di servizi a pagamento ( per esempio lavatrici a gettoni) come già avviene in alcuni istituti per i distributori di bevande e snack; introduzione e implementazione di sistemi ( metal detector fissi e body scanner) che consentano un più efficace esercizio della funzione di controllo per impedire l’ingresso in istituto di oggetti il cui possesso non è consentito alle persone recluse. Tutto ciò aiuta anche ad alleggerire il lavoro, già pesante, degli agenti penitenziari.

C’è anche il capitolo dedicato alla salute, un diritto che in carcere è un vero optional. Anche in questo caso si evidenza la necessità di implementare la tecnologia come la telemedicina. Ma anche interventi normativi come la centralità del rispetto del principio di territorialità o la riattivazione dell’attenzione sugli interventi per la riduzione del rischio suicidario e disposizioni del codice penale e del codice di procedura penale con riguardo al tema delle misure di sicurezza per infermità mentale. Non manca anche la proposta sul lavoro e formazione professionale dei detenuti. Così come la tutela dei diritti, adeguandosi all’orientamento della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione. La commissione guidata dal professor Marco Ruotolo ha fatto il suo lavoro con grande professionalità, ora tocca alla ministra Cartabia affinché tutto ciò non risulti inutile.