La Procura di Milano ha chiuso le indagini sul presunto complotto finalizzato a «inquinare procedimenti in corso davanti all’autorità giudiziaria milanese nei confronti di Eni e di suoi dirigenti ed apicali», in particolare quello sulle presunte tangenti pagate per la licenza del giacimento Opl-245 in Nigeria, un processo conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. L’atto che chiude l’inchiesta è stato notificato a 12 persone e 5 società. Tra queste non c’è l’ad di Eni Claudio Descalzi, che era indagato, e la cui posizione dunque verrà stralciata in vista dell’archiviazione. Tra i destinatari ci sono invece l’avvocato esterno di Eni Piero Amara (attualmente in carcere a Terni), il grande "accusatore" Vincenzo Armanna, e alcuni ex manager di Eni. Gli indagati devono rispondere, a vario titolo, di «calunnia, diffamazione, intralcio alla giustizia, induzione a non rendere dichiarazioni a o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, false dichiarazioni al pubblico ministero, favoreggiamento, corruzione tra privati» con il fine di «inquinare» i procedimenti nei confronti di Eni e dei suoi dirigenti rispetto alle attività economiche in Algeria e Nigeria e di «screditare» i consiglieri indipendenti Luigi Zingales e Karina Litvack. In particolare Amara, Armanna, Mantovani e Vella sono indicati come «capi e promotori» nell’avviso di conclusione delle indagini che vede l’attuale ad Claudio Descalzi parte lesa del complotto. Dalla intricata vicenda si sono diramati i veleni che hanno portato la procura di Brescia a indagare sui magistrati milanesi coinvolti. L’indagine nasce nel gennaio 2015 con un esposto anonimo - indirizzato alla procura di Trani - in cui si parla di un «programma criminoso finalizzato a destabilizzare i vertici dell’Eni». Presunte diffamazioni e corruzioni su cui si troverà a indagare anche la procura di Siracusa, prima del trasferimento del fascicolo sul presunto depistaggio a Milano - nel luglio 2016 - per  competenza territoriale. L’ipotesi del procuratore aggiunto Laura Pedio, inizialmente affiancata dal pm Paolo Storari, è che alcuni allora manager abbiano «promosso e costituito un’associazione per delinquere» allo scopo di promuovere reati quali calunnia, diffamazione, intralcio alla giustizia, rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria corrompere i testimoni, depistare con false denunce o documenti falsi le inchieste milanesi sulla corruzione internazionale in Algeria e Nigeria. Tutto per intralciare lo svolgimento dei processi allora in corso a Milano contro Eni e i suoi dirigenti. E per screditare i consiglieri indipendenti di Eni, Luigi Zingales e Karina Litvack. In particolare, l’ad di Eni Claudio Descalzi e il capo del personale Claudio Granata, anche lui verso l’archiviazione perché non figura nell’avviso di chiusura, sarebbero stati vittime di calunnia da parte dell’avvocato Pietro Amara e dell’ex manager del gruppo, Vincenzo Armanna. I due avrebbero riferito falsità sul loro conto «pur sapendoli innocenti» nell’ambito di alcuni interrogatori tra il luglio e il dicembre del 2019. Nell’atto che precede, di solito, la richiesta di processo, sono presenti tra le persone fisiche, oltre ad Amara e Armanna, anche Massimo Mantovani nelle vesti di presidente del cda di Eni Trading & Shipping spa, controllata di Eni, e questa stessa società che è indagata per la violazione della legge 231 del 2001 sulla responsabilità per i reati commessi dai propri dipendenti. Indagini chiuse anche per Michele Bianco e Vincenzo La Rocca, dirigenti dell’ufficio legale dell’Eni che avrebbero «contribuito a inquinare lo svolgimento dei processi Eni» e a «screditare i consiglieri indipendenti di Eni Luigi Zingales e Karina Litvak».