Una certezza: il ministro della Salute Roberto Speranza non è indagato. Anzi: non ci sono elementi per contestare qualcosa a qualcuno, perché sono tantissime le persone ascoltate dalla procura di Bergamo e altrettanti i documenti acquisiti, motivo per cui «bisogna valutare tutto», spiegano fonti della Procura. La vicenda è quella che ha visto finire ieri Speranza in prima pagina, reo, secondo quanto riportato da un articolo del quotidiano Domani, di «non aver raccontato cose veritiere» . Ma dal Palazzo di Giustizia bergamasco, dove si indaga per epidemia colposa e falso in relazione alla mancata istituzione delle zone rosse ad Alzano Lombardo e Nembro durante l’emergenza coronavirus, viene smentito categoricamente qualsiasi coinvolgimento del ministro, sentito, assieme anche all’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte e alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, come persona informata sui fatti.

«Ci sono in tutta l’indagine delle incongruenze che sono al vaglio della procura, ma non ci sono elementi da contestare al ministro», fanno sapere dall’ufficio inquirente, che ieri ha diffuso una nota per precisare il ruolo di Speranza nella vicenda. E nessuno stralcio dell’inchiesta, al momento, sarebbe pronto a imboccare la strada verso Roma per competenza territoriale. Anzi, «allo stato attuale, la situazione è identica a prima». Nella nota diffusa ieri, il procuratore Antonio Chiappani, a cui Domani attribuisce le parole riferite al ministro, afferma dunque che, al momento, «non è ipotizzabile alcuna specifica constatazione». Su Speranza, però, si è scatenata intanto la furia di Fratelli d’Italia, che ha chiesto a stretto giro le sue dimissioni. «Che fiducia possono avere gli italiani in una fase delicata come quella attuale verso un ministro che sta mentendo sistematicamente dall’inizio della pandemia con l’unico scopo di salvare la propria poltrona? Speranza deve andarsene», ha dichiarato il deputato Galeazzo Bignami.

L’inchiesta, fin dal principio, è stata caratterizzata da fughe in avanti sulla stampa. Ne sa qualcosa Ranieri Guerra, ex numero due dell’Oms ed ex direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute. «Il professor Guerra è venuto a conoscenza della sua posizione dai media - spiega al Dubbio il suo difensore, Roberto De Vita -. I magistrati partecipavano a trasmissioni radio e televisive nel pieno delle indagini, nelle quali si parlava delle sue presunte bugie. La questione di fondo è che sostanzialmente egli non sapeva per cosa e in relazione a quali fatti venisse tacciato di essere un masnadiero dalla procura, in assenza di ogni tipo di interlocuzione possibile con la sua difesa, perché noi nulla sapevamo. Il segreto istruttorio era unilaterale: valeva per schiaffeggiare e non per spiegare». Di fronte a questa situazione, Guerra, ormai esposto alla gogna mediatica, decise di rendere dichiarazioni alla stampa per difendersi e prendere posizione all’interno del procedimento penale, redigendo una memoria di 40 pagine, corredata da 500 pagine di documenti, che dopo essere stata consegnata ai pm, è stata condivisa con tutti i giornalisti che avevano rilanciato la notizia senza contraddittorio. D’altronde, spiega De Vita, «non avevamo possibilità di farne uno, di cointraddittorio, perché il procedimento era in fase di indagine, così abbiamo messo a disposizione tutta la documentazione. Da allora ad oggi - sottolinea - non abbiamo più avuto nessun tipo di notizia o informazione, quindi non sappiamo se ci siano stati sviluppi». La gestione mediatica della vicenda, secondo De Vita, rappresenta un caso esemplare: «Si assiste a una perdita di riservatezza e di laicità su indagini ad elevatissima complessità che riguardano presunte responsabilità per la morte di oltre centomila persone. Finché le indagini sono in corso, deve prevalere il senso e lo spirito dell’equilibrio e della terzietà dell’accertamento preliminare, non si dovrebbe quindi partecipare a contesti di dibattito mediatico che polarizzano su radicalità e sommarietà le valutazioni».

L’altro aspetto è la critica giudiziaria all’azione politica. E anche su questo, secondo De Vita, qualcosa non sarebbe andata per il verso giusto. «L’indagine, ai suoi inizi, aveva un presupposto locale. C’erano degli aspetti rilevanti su cosa sia stato fatto nell’immediatezza dalle autorità lombarde, perché in quel triangolo del Bergamasco sembrava esserci stato qualcosa di anomalo rispetto al resto del Paese - spiega -. In quella primissima fase erano tante le ipotesi e le congetture che non hanno trovato riscontro. Cosa si è accertato? In primo luogo che tutti i Paesi si sono trovati nella stessa identica situazione dell’Italia, anche quelli con un piano pandemico aggiornato, come la Svizzera e l’Inghilterra; e ciò a dimostrazione del fatto che non poteva essere la presunta mancanza di qualcosa a rappresentare l’elemento per cui si è sviluppata l’epidemia. L’altro aspetto è che, in Italia, laddove è stata fatta applicazione e attuazione del piano pandemico antinfluenzale esistente, indipendentemente dal fatto che fosse aggiornato o meno, e secondo me lo era da un punto di vista sostanziale, con il distanziamento, il triage e altro, la diffusione del virus è stata contenuta. A Bergamo è successo tutt’altro. Di conseguenza non può essere un tema nazionale».

In relazione al piano pandemico, l’indagine sostiene che dal 2006 ad oggi non sia mai stato aggiornato e che addirittura lo stesso Guerra abbia dichiarato che «non doveva essere aggiornato». Ma stando a quanto riportato nella rogatoria chiesta dalla procura all’Oms, lo stesso Guerra avrebbe dichiarato che «sino a quando sono stato direttore generale, il piano è stato rivisto annualmente e confermato in validità». Non esisterebbe, dunque, un “caso speciale” Italia: «Questa ipotesi, oggi, non ha alcuna possibilità di essere coerente con quello che sappiamo. Sono vecchie teorie con alla base l’idea secondo cui il governo avrebbe dovuto avere la capacità di salvare il mondo», aggiunge. D’altronde, come ha evidenziato Guerra nel suo memoriale, «una valutazione di adeguatezza o meno della gestione delle prime fasi della pandemia come quella prospettata dovrebbe in ogni caso tener conto di tutti gli elementi all’epoca disponibili e analizzarli attraverso un ragionamento ex ante e non certamente ex post». Insomma, «nessuno poteva prevedere un evento di questa portata straordinaria - conclude De Vita -. E suggerire ai familiari delle vittime l’idea che si poteva fare qualcosa e non è stato fatto è di una gravità enorme».