Non solo a Roma o a Milano: anche il tribunale del lavoro di Padova accoglie il ricorso di un detenuto tunisino ed accerta il diritto del ricorrente alla Naspi (l’indennità di disoccupazione) e condanna l’Inps a rifondergli le spese di giudizio. Tanti detenuti si vedono negare questo fondamentale sostegno al reddito in seguito a una circolare del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, poi avallata dall’Inps nel marzo 2019.

Il problema nasce con il messaggio del 5 marzo 2019, quando l’Inps ha fornito chiarimenti sull’erogabilità della prestazione di disoccupazione Naspi ai detenuti che lavorano alle dipendenze dell’istituto penitenziario. La Corte di Cassazione ha affermato che questa attività lavorativa, legata alla funzione rieducativa e di reinserimento sociale, prevede una graduatoria per l’ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione e avvicendamento. Questi, secondo l’Inps, non possono però essere assimilati ai periodi di licenziamento che danno diritto all’indennità di disoccupazione. Ai detenuti che lavorano all’interno e alle dipendenze dell’istituto penitenziario, quindi, non può essere riconosciuta la prestazione di disoccupazione in occasione dei periodi di inattività. L’indennità di disoccupazione da licenziamento spetta nel caso in cui il rapporto sia stato svolto con un datore di lavoro diverso dall’amministrazione penitenziaria.

Ma tutto ciò viene smentito dalle sentenze dei tribunali del lavoro. L’ultima riguarda il detenuto tunisino che ha lavorato per l’amministrazione del carcere di Padova. Francesca Rapanà, che lavora da anni con Ristretti Orizzonti, si occupa dello sportello giuridico del carcere Due Palazzi. Dice a Il Dubbio, che lo studio legale della Cgil con cui lo sportello collabora, ha appena vinto la causa contro l’Inps per la Naspi. Il giudice Roberto Beghini del Tribunale del Lavoro di Padova ha dato ragione al detenuto che dopo aver svolto per diversi mesi, nel corso del 2019, un’attività lavorativa in favore dell’amministrazione penitenziaria, una volta cessata, aveva presentato domanda all’Inps per ottenere la Naspi vedendosela respingere. Con il sostegno di Inca Cgil e Cgil Padova, aveva deciso di ricorrere al tribunale. E il giudice gli ha dato ragione. «

All’origine di tutto – dice Antonella Franceschin, direttrice dell’Inca Cgil Padova – c’è il messaggio Inps n 909 del 2019 con il quale l’Istituto informava che i detenuti dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria non hanno diritto alla Naspi. Una situazione in cui si trovava il ricorrente che aveva lavorato come addetto alla distribuzione dei pasti. Si badi bene, che se invece di lavorare direttamente per il carcere, avesse lavorato per conto di una delle cooperative che operano all’interno del Due Palazzi, la Naspi gli sarebbe stata riconosciuta. Secondo l’Inps, la sua posizione era del tutto simile a quella di qualsiasi dipendente del Ministero di Grazia e Giustizia che in quanto tale non ha diritto alla Naspi. A noi sembrava una forzatura per cui, di comune accordo con la segreteria confederale della Cgil, abbiamo deciso di “accompagnare” alcuni detenuti, per la precisione 4, nei loro ricorsi. Questa è la prima sentenza che ci arriva e ci conforta, considerato che le altre tre situazioni sono praticamente uguali. Ma al Due Palazzi saranno almeno una cinquantina i detenuti a cui è stata negata la Naspi dopo aver lavorato per l’amministrazione penitenziaria». Conclude la direttrice dell’Inca Cgil di Padova: «Siamo ottimisti sull’esito finale, anche perché ci sono state altre sentenze simili in Lombardia, contro cui l’Inps ha deciso di ricorrere in Cassazione. Per capire se e quando procederanno con i pagamenti toccherà attendere l’esito di questi ricorsi. Intanto però voglio pubblicamente ringraziare l’Avvocata Marta Capuzzo dello Studio Legale Moro per l’ ottimo risultato e Graziano Boschiero, dello sportello Inca all’interno del Due Palazzi che ha seguito fin dall’inizio lavicenda».

Interviene Sergio Palma della segreteria confederale della Cgil di Padova: «Questa riconosce un diritto: il lavoro deve valere sempre in termini etici, morali ed economici indipendentemente se lo si svolge dentro o fuori un istituto di pena, come in questo caso. Veramente assurdo da un lato, da parte dell’Inps, equiparare il detenuto lavoratore a qualsiasi altro lavoratore dipendente a tempo indeterminato del ministero di Grazia e Giustizia e, allo stesso tempo, negare qualsiasi equiparazione con i detenuti che lavorano per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria». Il segretario confederale, conclude: «Una differenza di trattamento che il giudice, nella sentenza, ha smontato pezzo per pezzo riconoscendo, peraltro, assolutamente infondata la pretesa da parte dell’Inps di negare l’involontarietà della disoccupazione data la cessazione del rapporto di lavoro con la fine della detenzione. Un’evidente alterazione della realtà, dal momento che, come è stato scritto nella sentenza, non è certamente il detenuto a scegliere quando essere rimesso in libertà e quindi non dipende certo da lui la fine del rapporto di lavoro».